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Mercoledì, 12 Maggio 2010 06:21

Il dialogo come antidoto all’idolatria - intervista a Bernhard Casper

Scritto da
Bernhard Casper Bernhard Casper

"L’ idolatria è dovuta al fatto che pur avendo sete del bene assoluto, non si possiede l’attenzione soprannaturale: e non si ha la pazienza di lasciarla nascere."
S. Weil

Si è tenuto lo scorso 28 gennaio l’atteso incontro intitolato: «Quale dialogo tra le religioni?», promosso dalla CCDC in collaborazione con l’Ufficio Pastorale per l’Ecumenismo e i Padri della Pace. Relatore d’eccezione è stato Bernhard Casper, professore emerito all’Università di Friburgo, considerato uno dei massimi filosofi della religione viventi. Nato a Trier nel 1931 e abilitatosi nel 1967, Casper è stato allievo di Bernhard Welte, del quale sta curando la Gesammelte Schriften per l’editore Herder. Conosciuto dal pubblico italiano per numerosi saggi frutto, in particolare, dei tradizionali incontri ai Colloqui Castelli e delle molteplici lezioni magistrali tenute in diversi atenei italiani, Casper si è imposto nel dibattito filosofico contemporaneo proprio per la sua impostazione teoretica innovativa, la quale pur proseguendo lungo la linea della tradizione ermeneutica, la oltrepassa confrontandosi in maniera originale con il pensiero ebraico del ‘900. Per l’occasione lo abbiamo incontrato.

La conversazione prende avvio da una serie di ricordi importanti: quando venne a Brescia con il Maestro Welte nel ’61 per visitare «i tesori paleocristiani di San Salvatore», poi i grandi incontri: il seminario e il corso di logica con Heidegger, l’amicizia profonda con Lévinas, che gli dedicherà uno dei suoi ultimi testi: Nell’ora delle Nazioni con queste parole: «Al Professor Bernhard Casper, teologo e filosofo, amico dal cuore grande e dall’alto pensiero». E ancora, i congressi e le conferenze condivise con l’allora Cardinal Ratzinger.

Prof. Casper, Lei torna in una città alla quale, se così si può dire, è legato a filo doppio: da un lato per il Suo vivo interesse per la storia dell’arte di età longobarda, dall’altro perché le Sue opere l’uprincipali tradotte in lingua italiana sono state pubblicate proprio da una casa editrice bresciana: la Morcelliana. Tra queste ricordo: Ermeneutica e teologia (1974), Per una fondazione della teologia filosofica nell’evento, in Humanitas 3 (2004), per finire con Essere ed evento e Il pensiero dialogico, entrambe pubblicate nel 2008.

«È vero – esordisce il nostro illustre interlocutore – anzi direi che esiste una particolare relazione tra la Facoltà teologica di Friburgo e gli scavi in San Salvatore. Mi recai a Brescia, per la prima volta, nel ’61 per accompagnare, in qualità di giovane assistente, il mio maestro Welte. Entrambi mossi dalla convinzione che l’intuizione di Franz Xavis Kraus, docente di Patrologia e Archeologia cristiana alla nostra Università, fosse vincente: ovvero che si possa dar corso ad una teologia che sia in grado di parlare non solo dei documenti, ma dei monumenti. A partire da questo nuovo concetto di teologia monumentale – continua Casper – Brescia divenne per noi l’occasione per studiare la svolta da un Cristianesimo romano dei primi secoli a un Cristianesimo che è stato in dialogo con i Longobardi, in una rivoluzione delle epoche tale da farci cogliere in quei monumenti l’esempio incarnato della storicità. Come amava ripetere Giovanni XXIII, se è vero che il Cristianesimo, visto sotto l’aspetto della tradizione, è sempre lo stesso, è altrettanto certo e importante che esso possa e debba essere “detto” sempre in modo nuovo. Di qui i ripetuti approfondimenti, il moltiplicarsi delle ricerche, l’affinarsi dei contributi come il famoso volume del Prof. Johannes Kollwitz sulla Lipsanoteca. Ricordo persino il nome dell’illustre cicerone che ci accompagnò durante la visita del Museo: l’allora soprintendente, Mario Mirabella Roberti. E ancora – ci racconta il professore, tenendo tra le mani un vademecum perfettamente conservato – non posso dimenticare la lunga sosta che facemmo dinnanzi alla celebre statua della Vittoria e le riflessioni immediate che ne seguirono: da quel volto non trapela tanto la gioia del trionfo, ma la fatica dello sforzo o, forse, la constatazione della caducità di ogni essere mortale e di ciò che ciascuno può portare a compimento ».

Lei ha dedicato una vita intera allo studio e all’interpretazione del pensiero dialogico, di cui è considerato il più autorevole esperto, ma anche il più raffinato prosecutore cogliendo nel binomio linguaggio/ tempo le condizioni stesse dell’accadere di quell’evento universalmente comprensivo che mi trascina verso qualcosa che è estraneo e altro, ovvero l’Altro. Che cos’è dunque il dialogo? Che cosa si deve intendere per pensiero dialogico?

«Inizierei col precisare – risponde lo studioso – che una buona teologia ha sempre bisogno di due occhi: l’u conno sistematico, l’altro storico e che la fede cristiana necessita sempre di una esplicazione ragionevole. La filosofia classica e l’elaborazione del pensiero dei padri medievali si sono, da subito, poste il grande interrogativo: che cosa è l’essere assoluto? Si sono quindi collocate in quell’orizzonte dell’essere che, come coglieva Agostino, primum cadet in intellectum. Questa metafisica è divenuta, pertanto, il mezzo per esplicare l’atto della fede nella grande epoca che da Aristotele e Platone giunge a Hegel. Poi con l’empirismo e con la teorizzazione di una scienza che rende, per dirla con Cartesio, l’uomo signore e padrone della natura si è cominciato a pensare la realtà more geometrico, con conseguenze tuttora ben visibili poiché se non si può negare che il progresso scientifico abbia certamente condotto a risultati importanti. Essi, proprio perché esposti nella forma di evidenze atemporalmente valide del tipo: “se, allora”, non dicono cosa si debba realmente fare, ponendo il soggetto nella difficoltà di scegliere tra possibilità meramente formali. Per uscire da una tale aporia, che determina l’attuale dis-orientamento dell’uomo, occorre ricorrere a quella fenomenologia del linguaggio che ebbe la sua svolta decisiva già nell’800 e arrivare con Humboldt alla constatazione che per parlare si ha bisogno di due persone. Già Aristotele nella Retorica lo aveva intuito: “qualcuno parla a qualcuno su qualcosa” restringendone, tuttavia, l’intendimento all’ambito scientifico. Ma se si vuole, davvero, capire il linguaggio lo si deve intendere nel suo realissimo essere parlato. Condizione che implica l’incontro con l’Altro, che come me è mortale e finito. Questo coincide con l’intuizione di Kant, che conferisce nell’economia della razionalità umana, il primato alla pura ragione pratica. Nella II formulazione dell’imperativo categorico v’è il fondamento dell’umanità. E il linguaggio stesso si mostra come umanità, a condizione che non degeneri, appunto, nella strumentalizzazione dell’altro o in un tentativo di limitarsi a parlare soltanto con sé, cadendo preda di un’autoreferenzialità autistica e patologica. Perché parliamo? In ultima analisi per promuovere l’essere insieme degli uomini. Nel suo temporalizzarsi, l’uomo coglie nell’evento che si fa dialogo e preghiera la possibilità stessa di dire sì ad un accadimento della storia».

E il dialogo tra le religioni?

«Quando ho davvero una fede sono tenuto a comunicarla e, quindi, sono già in dialogo. Come indica S. Paolo il credente è chiamato a confessare quella parola salvifica alla quale, con la sua ragione, ha dato l’assenso. Richiamando ancora Kant: “Tutto il pensare è un dire, tutto il dire è un udire”. Non solo, se io annuncio la mia fede come semplice cristiano, nel mettermi in dialogo con l’Altro, devo prendere sul serio il suo credo e non constatare superficialmente che si tratta di idolatria, che pure esiste. Al contrario, devo essere critico con il mio stesso modo di credere, in un perfezionamento che richiede timore e apertura. La consapevolezza dei propri limiti è proprio ciò che mette in guardia da un abuso della religione e da un suo decadimento, poiché il pericolo di qualsiasi credo è la pietrificazione dovuta alla sola autoaffermazione. Per questo il dialogo con l’Altro è indispensabile, un dialogo che oppone alla visione mistica dell’anima che parla con il suo Creatore, il monito agostiniano che ci ricorda come l’amore di Dio e quello del prossimo non siano due ambiti a se stanti, ma uno solo: in ogni mendicante amiamo lo stesso Cristo. Il mendicante è colui che ci “ruba” tempo, che ci rende suoi ostaggi, che ci trascina al capezzale del letto dell’ammalato di cui parla Kafka. E ciò che si svela nel Volto dell’Altro e che ci fa comprendere come la vocazione di Dio che ci è stato rivelato in Gesù Cristo trova la sua trascrizione concreta nel prendere sul serio la propria mortalità: la fecondità, in ultima analisi, è il frutto di ogni incontro con l’Altro».

Professore, il nostro tempo sembra essere attraversato da un duplice fenomeno: da un lato si assiste ad una crescente secolarizzazione – quasi fosse un deserto che s’accresce di nietzschiana memoria – dall’altro, si registra quello che Lei, poco fa, ha definito un progressivo decadimento del religioso. A partire dalle stimolanti pagine del suo Evento e preghiera (Cedam, Padova 003) potrebbe spiegarci in che cosa consiste il rischio cui può condurre l’adorazione del sacro fascinosum e tremendum di cui parlava Rudolph Otto e in quale tipo di errore cade l’uomo che si lascia irretire in ciò che Lei chiama «un’infinizione senza infinito»?

«Per intendere il decadimento del religioso occorre, innanzi tutto, precisare come sia necessaria una criteriologia capace di aiutarci a distinguere la vera relazione religiosa – che è sempre una sofferenza liturgica ossia un darsi in consegna all’Altro fino a farsi suo ostaggio in una gratuità che non richiede nulla in cambio – dalla sua degenerazione in forme idolatriche. Si danno, pertanto, due gesti: quello del possedere tutto, proprio di colui che trasforma il finito in infinito e l’intenzionalità autentica, che connota chi riceve ringraziando. Chi ci afferra è sempre e soltanto Dio. In proposito Meister Eckhart ha parlato di una gratitudine (Dankbarkeit) “ripartoriente”: nel farmi ostaggio dell’Altro io riconosco la gratitudine come un dono che mi viene da Dio. Heidegger ha mostrato – argomenta il pensatore – come la filosofia e il pensiero fenomenologico debbano “co-dirigere” l’intendimento del religioso. Se lei immagina due persone in dialogo sulla loro rispettiva appartenenza religiosa, potrebbe pervenire alla conclusione che questo dialogo non consista in altro che in un mero scambio di reciproca autoaffermaziotrario ne. In questo caso, non si dà futuro ed è proprio a partire dalla constatazione di questa “paralisi dialogica” che io posso esplicare all’Altro il mio rapporto con l’Assoluto e sono in grado di farlo – questo è un elemento imprescindibile – soltanto se sono autocritico, ovvero se possiedo una ragione critica che mi fa rilevare come il fenomeno religioso possa essere vero o falso. L’aspetto interessante da mettere in evidenza – continua il noto studioso – consiste nel fatto che il pericolo del rapporto religioso, che si schiude nella preghiera, deriva dalla sua stessa essenza. La preghiera appartiene costitutivamente all’esserci umano, nella misura in cui questo è assegnato a se stesso, ossia tentato. Se non fossimo assegnati a noi stessi, non potremmo pervenire a questo andare– oltre–noi che nel pregare accade liberamente. Trovandomi chiamato dall’Altro nella mia libertà, mi apro alla “Gloria dell’Infinito”. Ma, spesso, accade che venga meno la fiducia che mi fonda nel mio pregare: non accetto di reggere il fardello della mia condicio humana, sul quale, per altro, si fonda la mia dignità. Di qui il decadimento dell’evento responsoriale che ci fa comprendere come fosse fondata la constatazione di Feuerbach, che non esitò ad affermare come le religioni possano trasformarsi in fenomeni che sono espressione dell’egoismo di un gruppo o come sia da prendere realmente sul serio il sospetto freudiano secondo cui le religioni non sarebbero altro che nevrosi coerciti ve. Siamo dinnanzi a una perversione del rapporto religioso, dal quale si schiudono due figure: quella del “tiranno del Regno dei Cieli”, che è tentato di anticipare ciò che può darsi solo come cosa ultima e quella del pusillanime che non fede. L’uno punta troppo in alto, l’altro si accontenta di troppo poco: in entrambi i casi si assiste ad uno sbrigativo sottrarsi alla serietà della realtà intera della storia che ci chiama in causa in quanto libertà storicamente connotate. Semplicemente ci si accontenta di una “quasi infinità”, che è posta soltanto dagli uomini e che si fonda su una falsità che può essere tenuta in vita solo con la violenza. Ben si comprende, dunque, come il decadimento del religioso comporti il crollo dei modi fondamentali del mio temporalizzarmi: l’attesa, l’attenzione, la pazienza. Sottrarsi alla chiamata della trascendenza significa fondarsi su un’autoassicurazione, che è poi un’affermazione di possesso, un puro rendere sé e gli altri “oggetto di un oggetto”, “un recitare meccanicamente”, dimentico del fatto che, come ricordava Rosenzweig, nel pregare ne va di me».

Quali sono i modi e le forme del decadimento religioso?

«Essi hanno molti nomi: il potere che viene usato esclusivamente in funzione del potere, la rincorsa sfrenata del successo, la massimizzazione del profitto ad ogni costo, la guerra, l’autoaffermazione della nazione. Si tratta di una lista di idoli che si potrebbe allungare a piacimento se è vero che l’esserci contemporaneo, nella sua frenesia, si mostra, in queste forme degenerate del religioso, come un divoratore di tempo che prescindendo dall’Altro, non solo si sottrae all’attenzione della chiamata del Totalmente Altro, ma, letteralmente non ha più tempo per niente e per nessuno, sprofondando nella vischiosità del rituale. Con lo scongiuro tenta di imporre la propria potenza sulle “potenze più alte”, con la magia conta di “saperne qualcosa”, con l’omologazione al gruppo si sente sgravato dal peso di una libertà responsabile senza comprendere che, in tal modo, nega a se stesso la possibilità della propria temporalizzazione e si chiude alla chiamata. La collettività decaduta – afferma Casper – uccide l’uomo. Sono gli effetti di quello che Lévinas, interpretando anche il discorso di Heidegger sull’essere, definì le sacré (il sacro). Un brulichio anonimo e inebriante che rende impossibile l’essere ostaggio per l’Altro che accade nella libertà: alla gratitudine del pregare autentico si sostituisce, in una progressiva rimozione della realtà, la violenza di chi ha distolto lo sguardo dall’Altro e che si accresce fino a divenire fanatismo. E ancora, lo stesso linguaggio si fa ambiguo al punto che al gesto linguistico del timore e del ritegno si contrappone un puro affermare che diviene dottrinale. Un’ontologia come assoluta rende impossibile l’etica. Nell’idolatria – conclude Casper – manchiamo la verità che sola ci costituisce: siamo solo in quanto bisognosi dell’Altro e in questo aver bisogno ci viene dato del tempo per essere portati – con la pazienza, l’attenzione, la gratitudine – oltre–noi al di là di noi. L’accadimento della preghiera – conclude il filosofo – che guarisce e ci conduce al vero Infinito ci richiama, per usare un’espressione levinassiana, ad una religione da adulti».

Articolo pubblicato su Città&Dintorni numero 97

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