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Domenica, 09 Maggio 2010 05:22

Scommettere sulla relazione - Intervista al professor Adriano Fabris

Adriano fabris Adriano fabris
«Cambia l’idea stessa e la forma del filosofare. Si passa dal modello dello spettacolo a una più ampia esperienza di relazione. L’indagine filosofica, nel suo procedere e nei suoi risultati, diviene infatti espressione ed esposizione del filosofare stesso. Certo: di ciò va data anche la teoria, una teoria animata da motivazioni etiche. Ma non solo: va attuata e sollecitata la messa in opera, la possibile realizzazione. Affinché – attraverso la ricerca e la forma del libro in cui essa, in questa contingenza, viene ad esprimersi – possano compiersi nuovi ulteriori coinvolgimenti». Adriano Fabris, TeorEtica

Nell’età dell’indifferenza, di un individualismo trionfante e insieme di un isolamento dell’essere umano occorre ridefinire i rapporti tra pensiero e azione, tra teoria e prassi. Far emergere il reciproco implicarsi tra le due sfere che impone una loro ri–definizione, in vista di una sinergia ove la motivazione o il coinvolgimento siano colti nella loro intrinseca strutturalità. “In principio era la relazione” potrebbe essere questa la sintesi dell’ultima fatica di Adriano Fabris*: TeorEtica Filosofia della relazione (Morcelliana, Brescia 2010, 18 euro). Lo studioso – docente di Filosofia Morale e di Filosofia della religione all’Università di Pisa – porta al centro del dibattito contemporaneo ciò che nella storia del pensiero emerge come l’impensato: la relazione. Di qui il darsi di una teoria etica mente motivata ove il filosofare – che è offerta di senso e domanda sul senso – sia esso steso un agire.

Prof. Fabris, come nasce l’idea di TeorEtica che compara riflessione teoretica e riflessione morale?

L’idea del libro nasce da una constatazione. Oggi viviamo in un mondo in cui sempre di più, anche rispetto al passato, si rompono i rapporti con le cose con cui abbiamo a che fare, si spezzettano gli ambiti che ci piace conoscere, si privilegia il dettaglio isolato. Oggi è senso comune una mentalità che parte dall’individuazione e dall’analisi, allo scopo poi di controllare ciò che è stato separato dal suo proprio contesto. Se si tratta poi di pensare qualcosa in relazione con qualcos’altro, ciò avviene solo dopo un tale atto disarticolante: e la relazione diviene ciò che cerca di unire, senza che si sappia il perché, questo elemento isolato ad altri elementi isolati. Vediamo esemplificato tutto ciò all’interno della realtà virtuale: nel modo in cui conduciamo i nostri rapporti nelle chat o attraverso un social network. Qui infatti l’individuo isolato, posto di fronte al suo computer o mediante il suo iPhone, cerca di raccordarsi ad altri individui, isolati come lui, che fanno uso dei suoi stessi strumenti di connessione. Rispetto a tale situazione credo sia necessario un cambiamento di rotta. Bisogna mutare mentalità per evitare di essere vittime della sindrome da isolamento e da controllo. Bisogna partire dalla relazione. “In principio è la relazione” è la tesi che può riassumere questa idea. Ciò vale anche nell’ambito di ciò che più propriamente caratterizza l’essere umano. Pensiero e azione, teoria e prassi non possono essere artificiosamente separate. Anche perché, se della teoria si vuole dare una dottrina filosofica – e lo stesso vale per i criteri e i principî del comportamento umano, oggetto dell’etica –, non è possibile, come peraltro ha invece fatto gran parte della storia del pensiero, limitarsi alla pura e semplice elaborazione di conoscenze relative a questi ambiti. Giacché la stessa conoscenza è qualcosa che si fa e che, per farsi, ha bisogno di una motivazione. La teoria, se è tale ed è scelta come tale, risulta un agire motivato eticamente; e dell’etica, come insieme dei costumi e dei comportamenti umani, è possibile naturalmente elaborare una teoria. Ho indicato il reciproco rimando, l’insieme sinergico di riflessione teorica e agire morale con il nome di “TeorEtica”.

Questa TeorEtica ha nel concetto di relazione il suo fondamento: un “coinvolgimento del soggetto nella teoria e nella decisione morale”, che è già responsabilità del pensiero. Può spiegarci questa importante implicazione?

Il problema di fondo, appunto, consiste nel comprendere e nel mettere in opera il fenomeno che ho chiamato “motivazione” o che, altrimenti, possiamo dire “coinvolgimento”. Esso infatti è alla base del nostro agire e delle scelte che nell' agire facciamo. Ma il coinvolgimento non dev’essere inteso, semplicemente, riportandolo a una dimensione psicologica – come accade in certe riflessioni elaborate nel contesto dell’etica motivazionale di area anglo–americana –, bensì considerandolo come qualcosa di strutturale: come ciò senza cui, in altre parole, non si dà relazione. La teoria però, anche nelle sue elaborazioni più alte, non è in grado di coinvolgere. Questa è una delle tesi del mio libro, che ho cercato di argomentare nel primo capitolo. Può convincere, può persuadere: ma solo, appunto, su di un piano teorico. La teoria non riesce a motivare all’azione. Anche se so, infatti, che cosa è bene – questo è un tema proprio della tradizione ebraico–cristiana – non è detto poi che non faccia il male. Ma ciò accade non solo perché sono libero di comportarmi in modi diversi da quelli indicati dal sapere. Ciò si verifica, invece, soprattutto perché la teoria risulta davvero impotente sul piano della messa in opera di azioni responsabili. È questo un altro punto importante che voglio sottolineare. La teoria può dare il via ad azioni efficaci ed efficienti, basate, più o meno specificamente, sul principio di causalità. La motivazione della teoria, se mai può essercene una, è il controllo dei processi che essa ha spiegato. E questo controllo è fornito oggi dagli strumenti tecnologici. Ma ciò che manca, qui, è la messa in gioco di una responsabilità più ampia: quella che si assume il compito di realizzare i principî, che magari la teoria ha contribuito a chiarire, all’interno dell’agire quotidiano. Questa responsabilità deriva dal riconoscimento della mia struttura relazionale e dall’assunzione, riflessiva e libera, di tale struttura in ogni occasione del mio agire.

Che cosa significa recuperare il senso nell’età dell’indifferenza? In quale misura l’etica della relazione costituisce un’altra possibilità rispetto al predominio dell’approccio teorico in filosofia ove vige la convinzione che la teoria è capace di motivare adeguatamente? Posta l’intrinseca relazionalità dell’etica, in che cosa consiste l’eticità della relazione?

Quello che Lei mi domanda deriva da quanto abbiamo appena detto ed è il cuore della TeorEtica che cerco di elaborare. Oggi si parla tanto di ‘nichilismo’. Anche se non si tratta più dell’elemento fondamentale che contraddistingue la situazione del presente, questo fenomeno è comunque una componente importante, che incide sulla nostra mentalità e sul modo in cui, in generale, guardiamo al mondo e alle cose (accanto ad altri elementi altrettanto incisivi, oggi, come l’emergere dei fondamentalismi e la tentazione di abbandonarsi ai processi tecnologici). ‘Nichilismo’, nel contesto contemporaneo, vuol dire allora non tanto, o non più, l’affermazione che “Dio è morto”, quanto l’indifferenza nei confronti di questa stessa questione. Anzi: l’indifeferenza di fronte a tutte le questioni che possono riguardare scelte fondamentali per la nostra vita. “Tutto è nulla”: ecco l’assunto estremo che può riassumere una tale mentalità. E ciò significa: tutto è insensato, nulla ha senso alcuno. Con ‘senso’, qui, intendo il rapporto, il riferimento preliminare a una prospettiva di orientamento, alla quale posso certo agganciarmi, ma che non dipende affatto da me. Ebbene: vivere nell’età del nichilismo, inteso come età dell’indifferenza (almeno come indifferenza virtuale), significa ritenere che non ha più senso porsi la domanda sul senso. Significa sperimentare fino in fondo l’isolamento, l’esasperazione del dettaglio, la perdita delle relazioni che contraddistingue, come ho detto prima, il nostro agire e il nostro pensare nel mondo contemporaneo. Rispetto a ciò la TeorEtica, programmaticamente intesa come etica della relazione, vuole costituire uno scenario alternativo. Vuole cioè mostrare che ogni nostro agire (compreso l’agire che è proprio del pensiero) è essere in relazione e mettere in opera relazioni. Solo che le relazioni sono di due tipi: quelle che promuovono altre relazioni e quelle che le bloccano, che ne impediscono la fioritura. Le prime sono azioni buone, le seconde no. Ecco dunque che la TeorEtica è in grado di offrire non solo un paradigma diverso rispetto a quello dominante nel presente, frutto di una concezione unilaterale della teoria, ma anche un orientamento preciso e un’indicazione atta a farci comprendere, eticamente, che cosa è bene e che cosa non lo è riguardo al nostro agire. Ed essa è capace di farlo mantenendo e rivendicando quella prospettiva di relazione grazie alla quale solamente può essere recuperata una motivazione per il nostro essere e può essere ridato senso alla stessa domanda di senso.

Questa Sua concezione della TeorEtica presuppone un concetto impegnato di teoresi e diffusivo di etica. Di qui il ruolo fondamentale giocato da questa fondazione del principio etico della relazione come relazione che è capace di promuovere relazioni. Di qui, ancora, la possibilità stessa per la TeorEtica di costituire un riferimento complessivo per le etiche applicate: in breve, come Lei spiega, «si tratta di ritrovare su di un piano concreto la presenza del principio etico». In che modo, ad esempio, ciò si verifica nell’etica della comunicazione?

Credo che uno dei compiti della riflessione del nostro tempo sia quello di dare indicazioni di fondo per le scelte concrete che gli sviluppi delle nuove tecnologie ci costringono a fare. Bisogna, in altre parole, giustificare quei criteri e quei principî generali in base ai quali possono trovare orientamento le questioni affrontate dalle etiche applicate. Questo, credo, sia uno degli apporti della TeorEtica, con la sua elaborazione del principio formale della relazione buona come relazione in grado di produrre altre relazioni. E se il nostro agire, come ho detto, è essere in relazione, ne consegue che operiamo bene, in generale e nelle varie situazioni concrete, appunto agendo in modo tale da favorire, e non già da impedire, sempre nuove relazioni. Tutto ciò può fornire orientamento, ripeto, per le scelte che vengono compiute in ambito bioetico e biomedico, così come nelle varie dimensioni dell’etica sociale e, più in generale, nei differenti contesti delle etiche applicate. Nel libro ho cercato di mostrare qualche applicazione specifica del criterio etico fondamentale e di verificarne le possibilità di applicazione soprattutto nell’ambito dell’etica della comunicazione, anche sulla scia di riflessioni che in passato ho compiuto sull’argomento.

Lei conclude il Suo volume sui Paradossi del senso. Questioni di filosofia (Morcelliana, Brescia 2002) interpretando alcuni lavori di Maurits Cornelis Escher – si pensi alle Mani che disegnano e a Salita e discesa – che sono forme di opere autoriflessive, quasi che la TeorEtica fosse la configurazione di questi stessi commenti…

In effetti ritengo che ogni scritto di filosofia, se è davvero tale, non possa che avere un carattere riflessivo. Riflessione ed estroflessione, in altre parole, procedono di pari passo. Ma non al modo, di nuovo, e nel contesto dell’elaborazione di una teoria, secondo quanto ha mostrato e pie namente realizzato Hegel nelle sue opere. Bensì nel senso più ampio della pratica filosofica: di quella pratica che è propria dello stesso fare teoria e che in essa è insita. In altre parole, chi elabora una teoria filosofica lo fa facendo appunto filosofia, e far filosofia significa realizzare, proprio nel momento in cui qualcuno fa filosofia, quella stessa dottrina filosofica che egli sta esponendo. Da questo punto di vista, e in un significato ben preciso della parola, l’indagine filosofica ha uno specifico carattere performativo. Ciò determina anche una particolare idea della forma stessa del filosofare, e del modo adeguato e coerente in cui, nel suo filosofare, il filosofo è chiamato ad esporsi. La forma del trattato è propria dell’esposizione teorica: quella in cui la verità viene esibita nel suo carattere oggettivo, senza che di questa esibizione, e tanto meno della verità stessa, ci sia una specifica assunzione di responsabilità da parte del filosofo che, pure, la espone. La forma della TeorEtica, invece, è quella del farsi, del farsi filosofico, di un farsi che accade proprio mentre la filosofia stessa che si sta facendo viene ad essere esposta. E chi la espone, e se ne prende la responsabilità, è colui che, nell’agire filosofico, si mette in gioco in prima persona, mediante un impegno diretto, attraverso cioè un’esposizione coerente con quanto dice e con quanto fa. Ciò comporta, in questo processo, anche il coinvolgimento altrui: proprio perché filosofare è un modo di essere in relazione con altri. In tal modo il fare L’indiffefilosofia si prolunga e si trasforma nella dinamica del far fare filosofia. E per questa via viene altresì a farsi quello stesso processo di condivisione, di compartecipazione progressiva, che è uno dei possibili significati assunti dalla parola ‘universale’.

Centrale, nella Sua argomentazione, è il nesso tra relazione e scelta. Che cosa significa, dunque, decidersi–per–la–relazione e quale rapporto si instaura tra coinvolgimento e scelta?

Il problema del coinvolgimento consiste proprio nell’impostare correttamente il nesso tra relazione e scelta. Le difficoltà del nostro tempo, le stesse difficoltà che la teoria ha incontrato nel corso della sua storia, incapace di coinvolgere davvero, derivano dal fatto che quest’approccio ha ritenuto che bastasse stabilire una relazione necessaria all’interno delle strutture del pensiero, o anche fra pensiero ed azione, per coinvolgere davvero a un’azione buona. Le cose, invece, non stanno affatto così. La stessa struttura che la teoria stabilisce è qualcosa che pur sempre dev’essere riconosciuto e accolto liberamente, e liberamente posto in opera nella prassi quotidiana. D’altronde questo accoglimento e questa messa in opera non si danno in maniera arbitraria: quasi che la libertà fosse un salto immotivato nel campo dell’azione. Tale idea, ancora una volta, è frutto del privilegio della teoria e della convinzione che sul piano della teoria tutto sia già deciso. Invece la TeorEtica espone e realizza proprio il legame reciproco di teoria ed etica: il nesso fra una struttura riconosciuta come struttura buona e l’opportunità voluta di realizzarla nell’azione concreta. In altre parole, la teoria che in ambito etico, cioè come dottrina del comportamento buono, mostra che agire significa essere in relazione, e che relazione buona è quella che risulta feconda di altre relazioni, richiama l’opportunità, per farsi davvero reale, di essere scelta e messa in opera attraverso un agire che si compie nel concreto, qui ed ora: un agire, però, che viene scelto non già arbitrariamente, bensì sulla base di quanto la struttura della relazione mostra e giustifica come buono. Così avviene il coinvolgimento. Che si compie nella relazione fra ciò che mi coinvolge e il mio essere che ne è coinvolto: fra ciò che dà senso al mio agire, riconosciuto come senso buono, e il mio agire legittimato come buono e pieno di senso, perché conforme a tale orientamento preliminare da me assunto, implicitamente o esplicitamente. Il nichilismo dell’indifferenza, di cui parlavo prima, deriva infatti dall’arbitraria separazione, dall’ingiustificato isolamento, di ciò che invece ha senso solo nel rapporto. Recuperare questo rapporto, sostenere cioè che “in principio è la relazione”, significa rendere possibile di nuovo il coinvolgimento, il reciproco legame, anzitutto fra riflessione teorica e agire pratico, e dunque rispondere nei fatti all’apparente predominio dell’indifferenza. L’indifferenza stessa, a ben vedere, si presenta infatti come una dimensione coinvolgente, seppure il senso che essa offre è quello dell’insensatezza del tutto. Ma così anche il riferimento a questa prospettiva riconferma, sia pure paradossalmente, il primato del senso.

Lei, di formazione laica, cresciuto alla scuola dell’indimenticabile Prof. Vittorio Sainati, che fu peraltro ideatore della rivista «Teoria », da Lei attualmente diretta, è molto impegnato nel progetto culturale della CEI. Come vede, oggi, il ruolo dei cattolici nella riflessione pubblica sull’etica?

Sono convinto, come lo era il mio maestro Sainati, che l’attività filosofica debba esplicarsi in modi concreti nella situazione mondana in cui ciascuno di noi si trova a vivere. E questo va fatto a partire dalla propria tradizione e dalle proprie convinzioni di fondo. La storia del cristianesimo offre una riflessione articolata e un ambito d’impegno riguardo a quelle stesse tematiche su cui, a ben vedere, ci siamo soffermati durante questo colloquio. E la Chiesa cattolica italiana, nel mondo contemporaneo, è degna erede di questa tradizione. Ecco perché penso si debba considerare con attenzione e con rispetto il lavoro che tanti cattolici stanno oggi svolgendo su tali versanti.

*Fra le sue pubblicazioni ricordiamo: Filosofia, storia, temporalità. Heidegger e i problemi fondamentali della fenomenologia (ETS, Pisa 1988); Introduzione alla filosofia della religione (Laterza, Roma–Bari 1996, 2002); Tre domande su Dio. Un “game book” filosofico (Laterza, Roma–Bari 1998); “Essere e Tempo” di Heidegger. Introduzione alla lettura (Carocci, Roma 2000); I paradossi dell’amore fra grecità, ebraismo e cristianesimo (Morcelliana, Brescia 2000); Paradossi del senso. Questioni di filosofia (Morcelliana, Brescia 2002); Etica della comunicazione interculturale (Eupress, Lugano 2004); Teologia e Filosofia (Brescia, Morcelliana 2004); Etica della comunicazione (Carocci, Roma 2006); Senso e indifferenza. Un «clusterbook» di filosofia (Ets, Pisa 2007); Filosofia del peccato originale (Alboversorio, Milano 2009).
Pubblicato sul numero 100 della rivista "Città&Dintorni"

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