Per l’occasione l’abbiamo incontrata.
Prof. Saraceno, come Lei scrive nel suo saggio che si intitola «Eredità» (Torino, 2013), tale parola è pesante e densa di rimandi che non possono certo limitarsi alla trasmissione di beni da un individuo ad un altro...
Nessuno nasce in un mondo vuoto, non solo di istituzioni e relazioni sociali consolidate, ma anche di sistemi di significato, di modi di fare e di stare in relazione, di modalità di identificazione di persone e gruppi. Sistemi istituzionali, pratiche di spesa e investimento, uso del territorio, ma anche modelli tramandati di genere, di etnia, di appartenenza religiosa, tradizioni culturali e così via costituiscono «carte di navigazione» per muoversi nel mondo che ogni nuova generazione eredita da quelle precedenti. «Siamo come nani sulle spalle di giganti, così che possiamo vedere più cose di loro e più lontane, non certo per l’altezza del nostro corpo, ma perché siamo sollevati e portati in alto dalla statura dei giganti». Sono le parole di Bernardo di Chartres, filosofo francese del XII secolo, per esprimere il debito dei «moderni» rispetto agli antichi. Il gigante sulle cui spalle ogni generazione è collocata è l’insieme cumulato delle generazioni precedenti, del modo in cui hanno abitato e definito il mondo, costruendolo mentre lo conoscevano. Da un’altra prospettiva, guardando alle istituzioni sociali, la demografa statunitense Matilda Riley a metà ’900, osservando che ogni generazione, nella misura in cui programma spese che rispondono ai suoi bisogni, predetermina in larga misura ciò che potrà fare quella successiva, scrisse che ogni generazione «prepara il letto di procuste cui quella successiva dovrà adattarsi».
Vi è poi il rapporto tra genealogia ed eredità e il decisivo prevalere della linea maschile nel «rintracciare all’indietro il retaggio»...
La ricostruzione genealogica è un modo in cui si (ri)costruisce e trasmette un pezzo di eredità, in questo caso quella dell’appartenenza ad una linea di discendenza. Nella maggior parte delle società, e sicuramente in quelle occidentali, questa ricostruzione ha privilegiato la discendenza e l’appartenenza per via maschile (se ne ritrova una traccia non solo simbolica ancora oggi nella trasmissione del cognome), facendo delle donne degli strumenti, piuttosto che dei soggetti di questa continuità. È per certi versi paradossale che in Italia ancora oggi si fatichi a riconoscere la possibilità di trasmettere il doppio cognome, come si fa nei Paesi di lingua spagnola, ad esempio. Non si tratta di questioni formali, o nominalistiche. Costituiscono anche una forma di assegnazione del proprio posto nel mondo e nel sistema famigliare. Quando le mie figlie a 9 anni si sentirono dire dalla nonna paterna «con voi la nostra famiglia finisce», perché erano le uniche appartenenti alla nuova generazione, prima non capirono e poi rimasero male, anche se orgogliosamente si identificavano con il mio sistema famigliare, pieno di zii, cugini e nonni molto presenti e affettivi.
L’eredità, che implica un confronto/scontro tra generazioni, se per un verso impone riconoscenza, per l’altro dovrebbe spingere a un processo di emancipazione, per divenire, a nostra volta, «generativi»...
Il grande psicanalista Erik Erikson diceva che essere generativi significa essere capaci di fare spazio, perché chi hai messo al mondo, o a cui hai fatto da maestro, possa diventare se stesso. I passaggi generazionali sono sempre difficili, come ci raccontano le grandi tragedie, da Edipo a Re Lear. Oggi i modelli culturali e valoriali con cui siamo arrivati sin qui, aiutano solo fino ad un certo punto, e siamo di fronte alla necessità di trovare strade nuove.