Uno dei meriti del testo consiste proprio nel problematizzare il «che cos’è» del pensiero ebraico, indagando quale rapporto corre con l’indagine filosofica: in particolare nell’affrontare le difficoltà che emergono quando ci si confronta con le categorie del pensiero occidentale, teologia e filosofia. Chiediamo al professor Fabris di approfondire questo aspetto alla luce di quello che, per rimarcare il legame con unaradice diversa, sipreferisce chiamare pensiero ebraico... «Il pensiero che si rifà alla sapienza biblica - risponde il docente universitario - non è detto che possa essere sempre espresso attraverso le categorie filosofiche. Ciò è avvenuto in alcuni momenti storici (ad esempio con Filone di Alessandria o Maimonide), ma in altri momenti si è presentata una prospettiva diversa, critica o addirittura alternativa, nei confronti di quella riflessione che è nata in terra greca e si è sviluppata mediante concetti. Ciò è accaduto nel Novecento. Come dice André Chouraqui, il pensiero ebraico "si è incarnato nella carne e nel sangue: esso è storia"». Che cosa significa, allora, pensare adeguatamente la differenza e il legame tra Atene e Gerusalemme? «Significa - sottolinea Fabris - tener presente, sempre, che la riflessione occidentale non è monolitica, non ha un’unica origine, e quindi che non è giustificata la proposizione o l’imposizione delle sue categorie a livello globale. Essa, invece, attinge a varie fonti ed è il risultato dell’incontro di flussi diversi: soprattutto la tradizione greca e quella ebraico- cristiana, ma anche ciòche proviene da tradizioni arabe, nordiche, dell’Europa orientale. Tutto questo, in vari momenti della nostra storia, si trova fuso insieme, pur provenendo da fonti diverse... ». Di concerto con la scelta di tratteggiare i profili teorici di grandi pensatori ebrei - quali Benjamin, Heschel, Rosenzweig, Jonas, Jankélévitch, Levinas - l’alto valore del testo consiste nel coniugare questa ricca disamina delineata dai maggiori specialisti italiani con l’intentum di individuare le questioni attraverso le quali è possibile accostare in maniera esauriente il pensiero ebraico: dal confronto con la Shoah ai temi legati al messianismo e alla salvezza (anche sulla scorta del costante confronto con il pensiero tedesco).
Si pensi soltanto all’oltrepassamentodell’ontologia dell’«essere-che-ha-cura-d’essere» di Heidegger, chetrovaunodei suoi capisaldi nel celebre frammento dei «Carnets de captivité» di Levinas: «Le salut n’est pas l’être». E, ancora, le tensioni che sorgono nel linguaggio per renderlo accessibile, non tralasciando tuttavia di doversi misurare per un verso con la libertà di interpretazione e per l’altro con la fedeltà alla Scritture… «Il libro - spiega Adriano Fabris - vuol essere un’introduzione alle figure principali del pensiero ebraico novecentesco e ai temi che esso principalmente ha affrontato. Ma, a ben vedere, buona parte della filosofia del secolo passato è fatta da pensatori di origine ebraica. E ciò significa che il loro diverso sguardo sulle questioni di fondo del pensiero si nutre anche delle vicende che il popolo ebreo ha attraversato e contribuisce a rideterminare i concetti stessi della filosofia». Se volessimo individuare un ideale filo rosso che percorre il pensiero di questi autori potremmo dire che ciò che, letteralmente, accade, in una sorta di evento dell’evento, è proprio il dipanarsi di un pensiero che si fa dialogico - e qui siamo debitori delle profonde intuizioni di Bernhard Casper - affermando nel contempo tutta la consapevolezza dell’«Io sono» mortale e finito, che proprio per questo prende davvero sul serio il tempo. «Come diceva Franz Rosenzweig (un grande pensatore del Novecento, la cui riscoperta dobbiamo proprio a Casper) il pensiero di cui oggi abbiamo bisogno, il "nuovopensiero", è - rimarca il curatore del volume - un pensiero della parola: che si attua attraverso la parola e il dialogo, che si realizza nella concretezza del tempo. È un pensiero legato alla vita. Un pensiero incarnato ».
Adriano Fabris, che nei suoi studi ha offerto contributi fondamentali sul pensiero ebraico e ha studiato a lungo Heidegger, è stato tra i primi ad indagare recentemente i Taccuini Neri, dove si svela in modo chiaro l’antisemitismo di Heidegger. Gli chiediamo di parlarcene. «È vero, a volte, che ci troviamo prigionieri delle metafore che usiamo. Heidegger - sottolinea Fabris - rimane preso dalla metafora della radice. Dunque i popoli sono o radicati nella propria terra, come i Tedeschi, o sradicati nella diaspora, come gli Ebrei. Ciò determina una differenza insanabile e una contrapposizione ingiustificata. E invece la realtà, già lo dicevo, è fatta d’interazioni e mescolanze. È l’incontro di varie correnti di pensiero e di azione. Il mito della purezza, pur se estremamente pericoloso, è appunto solo un mito».