«Je suis Charlie». È un’espressione che ha invaso, letteralmente, i social network e che è diventata, in poche ore, l’imperativo più condiviso a livello globale e, in particolare, nel Vecchio Continente colpito al cuore in maniera così inaspettata e cruenta. Efferata. Incomprensibile.La Francia vive letteralmente sotto-choc questi giorni di attentati e di blitz, mentre si moltiplicano le manifestazioni perla libertà in tutto il globo - su tutte la grande marcia a Parigi contro il terrore con la partecipazione di leader da ogni angolo della terra - interrotte idealmente soltanto dal sottile rumore di matite spezzate. In questi momenti drammatici, abbiamo raggiunto telefonicamente Marc Augé, parigino, noto antropologo ed etnologo per porgli alcune domande su quanto è avvenuto e su quella sorta di paralisi,di disorientamento, di paura che ha colto all’improvviso il mondo intero. Lo ringraziamo per questa esclusiva e rimaniamo quasi noi senza parole quando subito risponde: «C’est horrible». Si comprende subito tutto il dolore e il disappunto che scaturisce dalla sua risposta immediata, quasi pronunciata con un fil di voce. Ma Augé non si sottrae al nostro invito e anche per questo lo ringraziamo.
Professor Augé, come uomo, come studioso e come cittadino francese cosa prova dinnanzi all’orribile attentato terroristico alla redazione del settimanale satirico «Charlie Hebdo», attentato che è un attacco alla libertà di stampa e,più in generale, alla libertà di ciascuno?
L’attentato del 7 gennaio è un attentato mirato che è indirizzato a delle personalità precise non solamente a causa di ciò che esprimevano, ma, più profondamente, a causa di ciò che pensavano. Si tratta esplicitamente per i jihadisti di imporre attraverso il terrore il totalitarismo intellettuale più brutale e più stupido che vi sia.
Quel che è accaduto lo scorso 7 gennaio a Parigi, la sua città, è davvero il paradosso del non-luogo, la triste esemplificazione di quelle che lei in uno dei suoi ultimi libri chiama «Le nuove paure ovvero la planetarizzazione del terrore». Mi permetta di citare un passo del Suo volume che offre un’analisi calzante e insieme profetica di quanto sta accadendo. Lei scrive: «Il terrorismo dei kamikaze, delle bombe umane che esplodono con le loro vittime,è tanto più temibile per il fatto che è difficile controllare qualcuno che ha deciso di morire. Il"martire"chesisacrifica per assassinare gli altri rappresenta la forma più perversa di ciò che gli etnologi chiamano "possessione". La possessione del kamikaze è tre volte un atto di morte: porta con sé una bomba che lo ucciderà; farà morire chi lo circonda; e il messaggio indirizzato ai sopravvissuti, redatto, letto, trasmesso dall’organizzazione che lo ha scelto, conterrà altre minacce di morte. Il dramma è che, lungi dall’esorcizzare questo nuovo posseduto dal diavolo,oggi gli si promette il paradiso ».E poi la conclusione che sembra la didascalia delle immagini che abbiamo visto in questi giorni tra spari, vittime, inseguimenti, ostaggi, altre vittime al negozio kosher e gli occhi innocenti di quel bambino tenuto tra le braccia di un agente:«Gli eserciti più moderni, le polizie meglio organizzate non sono al riparo dagli uomini (o dalle donne) che hanno accettato di trasformarsi in bombe umane»…
Avevo già scritto che si dovrebbe parlare di un prima e di un dopol’ 11 settembre. Questo «dopo» è segnato dalla combinazione drammatica di un«messaggio» reazionario e gracile, di un proselitismo arcaico allucinato e delle tecnologie più moderne. Questa spaventosa combinazione genera una paura giustificata in tutto il pianeta, che è immediatamente informato.
Si tratta, davvero, diunoscontro di civiltà,di una perversione di un certo Islam fondamentalista che si rifà al califfato o ad Al-Qaeda - i terroristi hanno annunciato la morte del direttore di «Charlie Hebdo», con il grido: «Allah è grande» - o di altro ancora? Si tratta di una forma arcaica di un proselitismo monoteista guerriero, ma anche,daparte dei leader e degli ispiratori, di un’impresa sovversiva mondiale minuziosamente messa a punto.
Questo attacco lo si potrebbe considerare come l’esportazione della tecnica di guerra nella metropoli?
Non si tratta essenzialmente di una forma di guerra urbana, ma piuttosto di azioni dei commando locali che,al dilà degli obiettivi simbolici e generali, si offrono oggi per colpire individui emblematici. È vero che noi viviamo in un mondo urbanizzato: gran parte della grande criminalità e delle mafie è urbana.
Dinnanzi ad uno scenario così complesso e doloroso, possiamo continuare a sperare che l’utopia dell’educazione può salvarci? Che cosa possiamo fare concretamente…
Bisogna distinguere tra gli ideatori e gli esecutori spesso dei declassati senza educazione e permeabili ai messaggi più sommari, semplici macchine di morte. Ma bisogna anche distinguere le urgenze. Dapprima lottare contro coloro che ci attaccano e contro i messaggi folli di cui essi si fanno portatori. Non tollerare espressioni del tipo: «Coloro che sono morti se la sono cercata; essi avrebbero dovuto essere più prudenti ». L’utopia dell’educazione è un ideale dei Lumi e, a lungo termine, è all’insegnamento dei Lumi che si dovrà ritornare. Questo richiederà tempo e implicherà che, parallelamente, si reagisca ad ogni corto circuito del pensiero e a tutte le forme più evidenti di viltà morale.