Sono solo alcuni degli interrogativi che animano il dialogo tra il teologo Enrico Garlaschelli e il filosofo Silvano Petrosino «Lo stare degli uomini» (Marietti, 108 pp.16 €) ove si tenta di riflettere sul gesto dell’abitare e sulle sue inevitabili implicazioni.
È una sorta di risalita a monte del problema che inerisce l’abitare come tema filosofico, «cioè come relativo ad una antropologia fondamentale le cui questioni, interrogazioni, ed impasses precedono ed eccedono le problematiche che impegnano le diverse discipline interessate al costruire e all’edificare».
Il filo rosso che attraversa il testo può essere individuato nel duplice livello attraverso cui si cerca di penetrare - e quindi di non limitarsi a definire - la nozione di luogo.
Da un lato quello del «chez soi» o luogo antropologico, che ha di mira il formarsi dell’ identità condivisa e che, secondo la celebrede finizione di Augé si contrappone ai «non-luoghi» dove non si danno senso e relazioni, ma solo spazi di transito poveri di umanità. Dall’ altro il luogo in chiave etico-ontologica, ove l’inquietudine che viene dall’ altro segna l’ esodo del sé dalla tana del suo abitare in proprio.
Petrosino parte da una constatazione di chiara provenienza heideggeriana, secondo la quale lo spazio per fare spazio come spazio necessita dell’uomo, ovvero lo spazio non è pensabile al di fuori di quell’ essere-al-mondo del soggetto, che è il luogo per eccellenza dell’ umano.
In quanto abitante, l’uomo è chiamato a coltivare e custodire, come si evince dal verbo tedesco «bauen», che ha questo doppio significato. L’intuizione heideggeriana viene ulteriormente elaborata da Petrosino ricordando come il filosofo tedesco, senza mai citarlo, non abbia fatto altro che commentare Genesi 2,15.
In «Essere e tempo», tuttavia, il soggetto che abita il mondo non è abitato dall’altro: ma è proprio passando attraverso di esso che egli fa esperienza di questa eccedenza. Ulteriorità, sfasamento, traccia, infinito intrattenimento che gli fa misurare il suo essere mortale e finito e «condannato» - ecco il dramma dell’ esistere - a dare un senso al suo abitare.
Come afferma Derrida: «l’altro non si inventa», ma è colui che segna il passaggio dal mondo in cui il soggetto vive rinchiuso nel proprio godimento, al reale che è l’irruzione dell’alterità che sfugge ad ogni presa e ad ogni dominio, fino alla casa che è il luogo per eccellenza dell’ accoglienza. Di qui l’ exemplum di Babele, modalità inadeguata dell’abitare poiché rappresenta «il luogo emblematico di un costruire che distrugge», privo di relazioni umane e insieme attacco pieno di úbris alla supremazia di Dio.
Di contro occorre tornare alla nozione originaria di dimora, in greco «oikos», che indica «il condividere ogni giorno culto e nutrimento», così come la parola latina «domus» contiene una nozione etico- morale che la distingue da domos, il mero dificio. Se è vero che ’ uomo, in quanto apertura su un fuori, «non è più cerchio, ma retta», egli deve poter riflettere e raccogliersi senza mai chiudersi. E non è casuale che Petrosino individui proprio nella spirale il segno della casa: accadere stesso dell’incontro con l’ altro dal quale sono abitato e con il quale parlo.