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Venerdì, 15 Luglio 2011 19:37

Se la felicità chiama iniquità, la beatitudine un bene di tutti

Può dirsi contento il sindaco di Dello, Ettore Monaco dell’esordio» del suo paese, per la prima volta toccato dai «Filosofi lungo l’Oglio». L’altra sera in piazza, Marco Vannini ha regalato ad un pubblico numeroso e partecipe una delle riflessioni più intense nella rassegna di incontri curata da Francesca Nodari, quest’anno dedicata alla felicità, e accompagnata dagli «instant book» degli editori Massetti e Rodella che ripropongono i testi di alcune conferenze (è uscito il terzo, dopo Augé e Casper, con la lezione di Remo Bodei). Chiamato a parlare di «beatitudine», Vannini ha negato che la felicità sia l’obiettivo che gli uomini devono perseguire. Perché «felicità e iniquità sono strettamente legate».

Vannini è il maggior studioso italiano di mistica speculativa e ha tradotto, tra l’altro, l’opera del teologo trecentesco Meister Echkart. Nel suo intervento ha proposto una distinzione tra piacere; felicità e beatitudine. «Il piacere riguarda il corpo e in particolare la sfera sessuale. Può essere intenso ma è transitorio».

Superiore è il piacere che deriva dalia felicità, esteso oltre il corpo anche alla psiche.«La felicità è l’oggetto principale del filosofare, ma già per i Greci essa dipende molto dalle circostanze esterne, dalla buona fortuna». Lo storico Erodoto commenta che «nessuno dei viventi è felice»; «anche perché – aggiunge Vannini – la psiche è fatta di desiderio, che causa sofferenza: lo sapeva Freud per il quale l’analisi non poteva far altro che trasformare la sofferenza nevrotica in “normale infelicità”». C’è infine la beatitudine: «Una parola quasi scomparsa, perché è scomparsa la cosa. Piacere, felicità e beatitudine sono i modi d’essere positivi di corpo, psiche e spirito. E lo spirito è sparito dalla nostra cultura, che vede solo corpo e psiche».

Il termine spirito ha anzitutto un significato intellettuale: «È l’“intelletto attivo” di Aristotele, un’intelligenza indipendente dalle cose, libera e distaccata dal particolare». Ma contiene anche mia componente amorosa: «Indica un legame vissuto con animo disinteressato. Platone nel “Convito” afferma che l’amore, se è grande, non si ferma al possesso del corpo: cerca il bene della persona amata, e più oltre il bene in sé». È l’evangelica rinuncia a se stessi, ciò che santa Teresa d’Avila chiamava «la farfalla che nasce dalla crisalide»: «La beatitudine è una gioia slegata dalle circostanze, un nuovo essere nel quale non si dipende da come vanno le cose della vita». «Non si prova gioia ma si è la gioia», scriveva nel ’300 la mistica Margherita Porete. Su questo, nota lo studioso, le grandi tradizioni spirituali di Occidente e Oriente sono concordi: «Per le Upanishad indiane, la beatitudine è dove finisce il desiderio».

Una condizione eccezionale Secondo Vannini si tratta di comprendere che non è così: «“Amavo l’amore”, è la nota espressione di Agostino. Noi diveniamo e siamo ciò che amiamo, siamo costituiti dal nostro desiderio amoroso. Siamo fatti d’amore, è questo il nostro essere, la nostra “normalità”: quello stato divino in cui non c’è un piccolo io, ma una condizione di assolutezza». Per questo la felicità chiama iniquità, perché tiene legati al principio del piacere individuale: «La beatitudine comincia quando il bene degli altri ti è assolutamente caro quanto il tuo. Nelle beatitudini evangeliche, il Regno dei cieli è dichiarato già presente per i poveri di spirito: coloro che niente vogliono, niente hanno niente sanno».

Informazioni aggiuntive

  • autore: Nicola Rocchi
  • giornale: Giornale di Brescia

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