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Venerdì, 19 Luglio 2024 03:01

«L'amore è follia, ma nello sguardo dell'altro se ne può riemergere»

 La piazza gremita a Orzinuovi per Umberto Galimberti La piazza gremita a Orzinuovi per Umberto Galimberti
Il filosofo ha ammonito: «Se il possesso estingue il desiderio, quale forza vi farà poi vivere?»

ORZINUOVI. Non v'è filosofo che abbia capito la natura dell'amore al pari di Platone. Il grande maestro dell'antichità lo definisce come "follia" o "mania", che comporta un disancoramento da idee sedimentate da educazione, ideologie, imposizioni sociali.

L'amore è, naturalmente, desiderio e il desiderio è mancanza. Così come lo è l'essenza stessa della filosofia, che «non sa niente» (il socratico "sapere di non sapere"), perché «il sapere appartiene alla scienza». Umberto Galimberti prende le mosse da questi presupposti, nella sua affascinante lectio «Desiderio d'amore», tenuta per la rassegna Filosofi lungo l'Oglio, diretta da Francesca Nodari, in un gremitissima piazza Garibaldi a Orzinuovi.

«Platone - ha ricordato il filosofo - non consegna amore ad Afrodite e Ares, divinità nobili, ma a una madre, Poenìa, il cui nome indica povertà, carenza». Lo dice per bocca di Socrate, nel dialogo «Simposio», dedicato proprio al tema dell'eros, che, nel racconto della donna di Mantinea diventa un «daimòn», un semidio dotato di doppia natura ed anche spinta propulsiva che «dà ali» per elevarsi al Bello e al Bene. 

Provocazioni. Galimberti non manca, durante la conversazione, di lanciare piccole provocazioni, un po' come il "tafano" socratico che pungola gli interlocutori per risvegliarli dal torpore: «Se una cosa la possiedo ancora prima di averla desiderata, si estingue il desiderio. Lo dico ai genitori: non regalate tutto ai vostri bambini, fateli desiderare di raggiungere l'obiettivo con quel che Freud chiamava lavoro psichico. Quando in una vita il desiderio è spento, qual è la forza che vi farà vivere?». Se l'amore è follia, argomenta il filosofo, la ragione invece è un sistema di regole, utili per comunicare in maniera univoca e prevedere i comportamenti. Ma «non dice la verità». «Le cose, infatti, sono disponibili per una pluralità di significati. Accade nei sogni, dove saltano il principio di non contraddizione e quello di causalità, assieme alle categorie spazio-tempo; lo sa, inconsapevole, il bambino, non arrivato ancora a una determinazione dei termini».

I Greci pensavano che la follia appartenesse agli dei, non agli uomini (Eraclito, per esempio, definisce il dio «giorno-notte, sazietà-fame, guerra-pace» etc.). La "divina mania", tuttavia, può abitare anche gli uomini. Succede nella grande arte o nella grande letteratura. «Se vuoi creare qualcosa osserva Galimberti -, devi scendere nella tua follia, anche se è rischioso (lo insegnano personaggi come Rilke o Van Gogh).

Ogni volta che attingiamo alla nostra follia siamo presi dall'entusiasmo, parola che vuol dire etimologicamente "dentro di te c'è un dio". Così la bellezza, l'amore è una cosa inquietante, drammatica, un contatto di follie». Un accesso a quella «parte folle», che è sottostante al nostro io, ma «molto più potente». Quando dico «ti amo», chi parla, chiede il relatore? Il mio desiderio, la mia idealizzazione, la mia dipendenza, il mio eccesso o, appunto, la mia follia? «L'amore prevede il collasso dell'io, della parte razionale».

Tra umano e divino. Eros è metafora dell'amante che desidera ciò che non ha (vive «scalzo e senza casa, si sdraia sempre per terra senza coperta, e dorme all'aperto davanti alle porte o in mezzo alla strada») e del filosofo che tende verso la sapienza ma non la possiede. «Platone - nota il filosofo - ci sta dicendo che l'amore è povertà, non è possesso. Eros sta in mezzo tra l'umano e il divino, il suo compito è tradurre le parole degli uomini agli dei e interpretare le parole degli dei per gli uomini». L'amore dunque - una lezione che ci arriva da 2.500 anni fa - non è rapporto fra due individualità o, peggio, esaltazione del proprio ego, ma «svelamento» per cui «grazie a te, che mi hai riconosciuto, posso scendere nella mia follia, ma soprattutto posso fidarmi di te e riemergerne». Sempre nel «Simposio», il mito dell'androgino suggerisce, conclude lo studioso, che noi «siamo una metà uomo, che ha bisogno dell'altro per fare l'intero. E per capire chi siamo». Per dirla ancora con Platone: «Tu sei il riflesso dello sguardo dell'altro».

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