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Venerdì, 28 Gennaio 2011 02:31

Levinas e la violenza del volto

Scritto da
Emmanuel Lévinas Emmanuel Lévinas

Ha ragione Graziano Ripanti allorché nella sua introduzione alla Violenza del volto (Morcelliana pp. 39,8 euro) – intervista fatta da Angelo Bianchi, il 4 aprile 1985, a Emmanuel Levinas e posta in appendice alla sua tesi di laurea – afferma che «l’intervista all’autore sembra oggi essere divenuta una specie di genere letterario, la cui vivacità riflette sinteticamente la vitalità del pensiero».

Il dialogo con il celebre filosofo ebreo lituano riflette già nel suo andamento di domanda e risposta, il movimento stesso del pensiero levinasiano. In esso si ricapitolano i grandi temi di una filosofia del «Totalmente Altro» ove campeggia l’idea di un senso che non è tema, né rappresentazione, né essere ma che trova la sua significanza originaria nella nudità del volto dell’Altro, che mi convoca e mi invoca. Che mi provoca contestando«il mio potere di potere». Un volto in cui è inscritta la traccia dell’Illeità, di quel «Dio che viene all’idea» per il fatto stesso che un uomo parli ad un altro uomo. «Tra la giustizia meramente razionale e l’ingiustizia, c’è un ‘appello’ alla saggezza dell’io», che depone il proprio sé, per farsi incontro all’altro.

Di qui il paradosso della violenza del volto che mi fa cogliere nell’unico modo per me possibile, ossia come un Dasein mortale e finito che, nel suo farsi accadere, di volta in volta, nella storia, riconosce lo stato fondamentale della sua ‘bisognosità’. Riconosce, nella condizione di libertà nella quale, parimenti, è sempre esposto alla tentazione di ignorare l’altro, che il modo autentico per iniziare-qualcosa-con-se-stesso sta nel «non uccidere l’altro e nel non lasciarlo solo nella sua mortalità». Come dire: la vocazione alla santità, che è insita in ogni uomo, si schiude a partire dalle «circostanze concrete» in cui la significanza del senso è già indice di quello scoprimento della separazione o asimmetria tra me e l’altro, che è l’esatto opposto di quel «finta di niente» in cui abita il carattere numinoso e vischioso del sacro.

Ma ciò che, a nostro avviso, sorprende in questo testo levinasiano è il ricorrere di categorie che già il filosofo ebbe modo di indagare con cristallina chiarezza nei Carnets de captivité (inediti usciti nel 2009, in Francia, per i tipi di Grasset/Imec), durante la sua prigionia al campo di Falligsbotel, tra Brema e Hannover; ove la domanda fondamentale: «ho il diritto d’essere?» su cui si sofferma nel’intervista, trovava in un teologumeno indagato in maniera precristiana, la felix culpa, la risposta fondante, elaborata in una condizione sui generis, che lo condusse ad una sorta di epochè esistenziale. Un essere soli con Dio, in cui scoprire il misterioso capovolgimento della sofferenza in felicità.

Sofferenza cui Dio stesso partecipa o kènosi divina – «il salmista non dice forse sono con lui nel dolore? (Salmo, 91,15) »– e nella quale l’io che soffre prega per il Padre. La preghiera diviene cifra, per dirla con Bernhard Casper, di ogni accadimento linguistico.

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