La chiave di questo Festival segue l'impianto contro la solitudine e l'egoismo. Un «Dire Io» messo lì, nudamente, per denunciarne quel farsi del male stordito dalla convinzione di farsi del bene.
L'ospite è un altro interprete sofferente di questa sezione anti egoistica, quell'Enzo Bianchi oggi come in esilio dalla sua naturale casa di Bose, creata e cresciuta per la sua energia e alimentata dall'intelligenza di questo suo io aperto all'altro, un io declamante, molto biblico anche nell'essenza estetica: Enzo Bianchi parla e predica contemporaneamente. Appunto, declama: «È vero che la gente ha riguadagnato le piazze, ma non è cresciuta la voglia di stare insieme, di ascoltarsi. Come se gli altri ci dessero fastidio. E non è vera la predizione di Baumann qualche anno fa, quando sosteneval'arrivo di un tempo della comunità. L'io va detto con gli altri o si spegne in se stesso».
Enzo Bianchi non elude il pericolo di un Cristianesimo che si spegne. Nello stesso giorno, ad un'altra ora, al Vanvitelliano in Loggia, a ricordo di Giuseppe Camadini, ha agitato la medesima dichiarazione su un Cristianesimo sparito, senza colpo di reni dalle alte sfere dirigenziali, il prof. Ernesto Galli della Loggia. E nella città dei cattolici, nella Brescia Fidelis Fidei et Iustitiae, scuote questa doppia analisi di un laico e di un forte credente.
A cosa allude questa incontinenza ad accentuare una parabola e una caduta che non cade e semmai si declina secondo la volontà che vorranno proprio i cattolici, non gli scommettitori sulla loro sparizione? Qualcuno, nelle lunghe file del San Barnaba, avvistava monatti desiderosi di portarsi via cristiani appestati e in fin di vita. Eppure, l'anemia religiosa di Sartre, precisa Bianchi, non ha risvegliato alternative ai cattolici. Nella chiusura dell'io si comprende la defezione dal Cattolicesimo e dunque, grida Enzo Bianchi, «reagite, consegnate speranza ai figli, istruiteli, formateli: serve una presenza reale in famiglia, non il soddisfacimento dei desideri materiali; non serve ciò che uno dà, serve ciò che uno è».
Il contadino Bianchi, cresciuto nella campagna del Monferrato, rilancia l'educazione dellaterra: «Se vorrai essere una persona dovrai sentirti Come gli altri, Con gli altri, Per gli altri». Insegue le profezie finite fuori strada, l'ideale dell'uomo planetario degli anni Settanta, il sogno di una partecipazione sterminata e infine esaurita. «Come è possibile dice il relatore credere in un Dio che non si vede e negarsi a una persona che si vede ogni giorno. Dunque, la prima fede si sostanzia nell'incontro dell'io con l'altro, nella relazione umana che è già il primo farsi della relazione con il Signore».
È, di nuovo rilanciata, la riflessione di Levinas. Diviene un dono alla direttrice del festival, Francesca Nodari, studiosa appassionata del pensatore francese, quando si riferisce a «quel volto che non è altro che il tu dell'io che lo osserva».
Infine, Enzo Bianchi assalta la cima su cui si apposta la grande questione dei nostri giorni: «Oggi, la solitudine è il nostro pericolo maggiore, non paradossalmente maggiore della povertà economica. I media non la registrano. In Gran Bretagna il governo ha istituito il Ministero della Solitudine ed è stata una meravigliosa invenzione». Perché non ripeterla anche da noi, non fabbricare un Ministero della Solitudine per contribuire ad abbatterla, per segnalare un abisso su cui tutti, più o meno, rimaniamo sospesi?