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Lunedì, 10 Gennaio 2011 08:22

Attualità della mistica - Parte prima dell’intervista a Marco Vannini

Scritto da
marco vannini marco vannini

Concetto che si dice in più modi, mantenendo, per lo più, un significato che si è affermato dal ’500 in poi – negli anni della Controriforma – quando per mistica si intendeva un’esperienza di eccezionalità spirituale, la mistica viene spesso confusa con esperienze vicine al visionarismo o all’irrazionalità – si pensi, soprattutto, agli autori anglosassoni. Per non dire dell’Enciclopedia francese delle mistiche ove si distingue, addirittura, tra mistica hippy o dei tarocchi, ponendo l’accento sull’aspetto misterico del concetto in questione. In realtà si tratta di trasposizioni di significato che rischiano di oscurare l’essenza stessa della parola, nata prima come aggettivo di teologia o interpretazione e, solo in un secondo tempo, impostasi come sostantivo.

Che cos’è, dunque la mistica? Un’esperienza di unità spirituale e profonda tra uomo e Dio e Dio e mondo. Ciò che trapela da questa definizione è il senso di non distinzione tra il piccolo ego personale e la totalità, che è la Trascendenza. Quale sfida scaturisce da questo fare vuoto di sé? Per un verso, approdare all’essenza che caratterizza universalmente ciascun uomo: un pervenire alla scoperta di sé, sapendo, per dirla con S. Giovanni della Croce, che: «la sostanza dell’anima è Dio». Per l’altro, essere consapevoli del fatto che chi davvero si cala «in interiore homine», perviene all’esperienza divina, che è – come avevano ben inteso gli Scolastici – una conoscenza attraverso l’esperienza di Dio».

Per fare luce su un concetto di tale levatura e registrarne l’attualità per il ricorso che se ne fa, persino nel delicato ed oggi più che mai indispensabile dialogo tra le religioni, abbiamo incontrato Marco Vannini (1) , il maggior studioso italiano di mistica speculativa e traduttore, con un infaticabile lavoro ventennale, dell’intera opera, latina e tedesca, di Meister Echkart.

Professor Vannini, come nasce il Suo interesse per la mistica?

Nasce spontaneamente, dall’educazione religiosa ricevuta nell’infanzia (siamo prima del Concilio!) e, insieme, dall’incontro e dalla passione per la filosofia, maturata nell’adolescenza. Fu proprio seguendo autonomi, disordinati ma appassionati sentieri di ricerca, che scoprii, nella Biblioteca Marucelliana di Firenze, il librettino curato dal professor Giuseppe Faggin, La nascita eterna, ossia la sola antologia di Eckhart allora disponibile in italiano. Per quanto fossi solo uno studente ginnasiale, ebbi la certezza di essermi imbattuto in qualcosa di straordinario, infinitamente più profondo (o più alto) di tutto ciò che mi era fino ad allora noto – o veniva insegnato – una certezza che oggi, a distanza di mezzo secolo, è per me, se possibile, ancora più forte. Ovviamente non comprendevo tutto, e proprio per capire mi misi a studiare filosofia e poi teologia, dedicandomi in particolare agli autori e alle correnti che più si ri- ferivano a questo àmbito. Così, piano piano, mi diventò familiare quel mondo che, un po’ impropriamente e soprattutto in modo purtroppo molto equivoco, si chiama “mistica”.

Chi è per Lei Meister Eckhart e quali sono le opere che più La colpiscono del predicatore domenicano? Quali sono, a Suo parere, le proposizioni più importanti che gli vengono contestate nella Bolla In agro dominico promulgata il 27 marzo 1329? Per tornare alla Sua ultima fatica, Prego Dio che mi liberi da Dio – titolo che si riferisce direttamente al Sermone 52, Beati pauperes spiritu, di Meister Eckhart, che pare il Suo autore per eccellenza –, in che senso si può parlare di religione come menzogna e di religione come verità?

Come dicevo prima, per me Meister Eckhart è davvero Meister, magister, come lo chiamarono i suoi contemporanei. È il cristiano che ha più profondamente compreso il messaggio evangelico e, insieme, il filosofo medievale che ha saputo raccogliere il meglio dell’eredità classica. Le sue opere sono tutte ugualmente importanti, sia quelle in volgare, destinate al popolo, sia quelle in latino, nate per l’ambiente universitario. Da un punto di vista più filosofico–teoretico, si può dire però che il Commento al Vangelo di Giovanni sia l’opera più densa e rilevante, mentre per un accesso più immediato al suo pensiero e alla sua esperienza, sono certamente le opere in volgare, i Sermoni, o i cosiddetti Trattati, ad essere più utili. Sono anche le opere più affascinanti, profondissime e insieme semplici, accessibili a tutti, come solo un grande maestro di vita – Lebemeister, e non solo Lesemeister, ovvero professore, come notava di lui Heidegger – può fare. Valga un esempio per tutti: le cosiddette Istruzioni spirituali, ossia gli insegnamenti che Eckhart, priore domenicano ad Erfurt, impartiva la sera ai suoi novizi, riuniti in refettorio per la cena. Le proposizioni censurate dalla Bolla del 1329 (emanata, peraltro, da uno di quei Papi avignonesi avidi e sanguinari che Dante chiama “lupi rapaci”: si legga nel canto XXVII del Paradiso la lunghissima invettiva che il Poeta mette in bocca a san Pietro, e , nel canto XVIII, i versi 130–136, dedicati specificamente a Giovanni XXII, cui si deve appunto la Bolla) sono tutte importanti. Quelle che interessano il piano morale colpiscono forse di più, almeno a una prima lettura, come ad esempio la XVI: “Dio non comanda propriamente alcuna azione esteriore”, o la XIX: “Dio ama le anime, non l’opera esteriore”, o, ancora, la IV: “In ogni opera, anche cattiva – e dico cattiva in ordine sia alla pena che alla colpa – si manifesta e riluce ugualmente la gloria di Dio”, e la VI: “Chi bestemmia Dio, lo loda”. Direi però che più importanti sono le proposizioni che trattano del distacco, come la VIII: “Chi non ha di mira beni, né onori, né utilità, né devozione interna, né santità, né premio, né regno dei cie- li, ma ha rinunciato a tutto ciò, e anche a quel che è suo proprio, in tali uomini Dio viene onorato”, e, più ancora, quelle che investono direttamente il rapporto Dio–uomo. Ne ri- porto alcune: la XI recita: “Tutto quel che Dio padre ha dato al Figlio suo unigenito nella natura umana, lo ha dato anche a me, senza alcuna eccezione, né dell’unione né della santità: lo ha dato tutto a me come a lui”. La XX: “L’uomo buono è l’unigenito Figlio di Dio”, o, infine, la X: “Noi siamo trasformati totalmente in Dio e mutati in lui; come nel sacramento il pane viene mutato nel corpo di Cristo, così sono cambiato in lui, giacché egli mi rende uno col suo essere, non simile, per il Dio vivente è vero che non c’è più alcuna distinzione qui”. Si deve notare che si tratta sempre di proposizioni isolate, avulse dal contesto. Nella sua autodifesa al proceso, Eckhart sottolinea che tutte esse possono essere adeguatamente spiegate, anche se lamenta che i suoi censori e giudici siano imperiti, tardi, rudes, ovvero inesperti, rozzi, duri di cervello, e perciò condannino perché non capiscono, e condannino quello che non capiscono. Egli rivendica sempre la sua ortodossia, il suo ruolo di magister all’interno dell’ Ordine Domenicano, e infine si sottomette al giudizio della Chiesa, morendo in pace e comunione con essa. L’ultima Sua domanda è più complessa, ma per tentare di rispondere in breve, riassumendo il senso del mio prego Dio che mi liberi da Dio (che, come ricorda, è un’invocazione eckhartiana), direi che la religione è verità in quanto orientamento dell’anima, anzi, di tutto l’essere, verso l’Assoluto, fino a giungere a quella identificazione con esso di cui parlano, appunto, anche le frasi censurate sopra riportate, mentre è menzogna in quanto costruzione mentale (mi piace sempre ricordare che “mente”, in latino mens, è il sostantivo il cui verbo è mentire, mentiri latino, per cui si potrebbe fare un bel gioco di parole: Cosa fa la mente? semplice: la mente mente). Infatti la costruzione mentale è un frutto della presenza dell’egoità, ossia di ciò che tutte le mistiche considerano il male radicale. Non è forse essenziale anche nell’insegnamento evangelico la “rinuncia a se stessi” (abrenuntiare semetipsum di Lc 9, 23) ? Spiegando il passo cruciale di Gv 8, 44, Eckhart sottolinea come il demonio sia padre della menzogna e mentitore egli stesso perché ex propriis loquitur, ovvero parla di ciò che è suo. Ciò che è proprio, egoico, è infatti la radice di ogni male e peccato. In questo senso, un Cristianesimo senza conversione e distacco, e dunque senza rinascita spirituale, senza grazia, è del tutto falso. Per dirla ancora con le parole di Eckhart, una tale religione e teologia sono menzogna e bestemmia.

In che senso Agostino, Eckhart, Silesius sono da considerarsi pen- satori di riferimento per la nostra contemporaneità?

Partiamo dal primo: Agostino. Oggi è di moda rimproverargli la sua con- cezione pessimistica dell’uomo, con le conseguenze esclusivistiche in senso clericale, con la sua morale dura, rigorosa, soprattutto in materia sessuale, ecc. Quello che invece è essenziale in Agostino (che è, detto per inciso, il Padre della Chiesa di gran lunga più amato e citato anche da Eckhart) è però l’aver visto con precisione e senza compromessi la malizia di fondo dell’uomo, quell’ amor sui, amore di sé, che distoglie radicalmente dal Bene, da Dio. Noi non trarremo quelle conseguenze che il Vescovo di Ippona trasse a suo tempo, come la dannazione eterna per i non battezzati e simili, ma l’essenziale dell’insegnamento resta: senza una radicale conversione, senza la grazia, senza la rinascita spirituale, l’uomo resta immerso in una condizione lontana da Dio. Può certamente farsi un’immagine di Dio, pregare un Dio – dunque avere una religione –, ma – e qui torna il discorso accennato sopra – quella religione è menzogna, quel Dio è un idolo. Non meraviglia, dunque, che al numquam satis laudatus Augustinus, al non mai abbastanza lodato Ago- stino, come diceva Lutero, facciano sempre riferimento i mistici cristiani. Attraverso Agostino, poi, penetrano nel Cristianesimo latino Platone, Plotino, il neoplatonismo – ovvero la fonte mistica per eccellenza –, che non è esaurita, non cessa di zampillare.

Eckhart è privo di quelle asprezze dogmatiche e di quell’esclusivismo clericale che, come dicevo, oggi si rimprovera ad Agostino. Lui, uomo del medioevo, contemporaneo di Dante, pensa che tutti abbiano ed abbiano avuto la luce e la grazia di Dio: pagani, ebrei, musulmani. Anzi, si spinge addirittura a dire che i filosofi pagani sono andati più avanti di san Paolo, perché sono arrivati con la loro esperienza là dove san Paolo è arrivato per grazia! Non meraviglia perciò che, oggi, Meister Eckhart sia il punto di riferimento costante nel dialogo tra le religioni (o, per meglio dire, tra le mistiche), soprattutto con quelle dell’India. Farò solo l’esempio di Henri Le Saux – il benedettino francese, amico di Raimon Panikkar – che si recò in India, visse come un asceta indù, ricercando il senso profondo della spiritualità indiana: nel suo incontro con le Upanishad, scopre che il Cristianesimo ne possiede già la sapienza, ma il Cristianesimo è, appunto, quello di Meister Eckhart.

Silesius è significativo per noi per diversi motivi. Il primo è che si tratta ormai di un uomo moderno, dei tempi di Galileo e di Spinoza, passato per le guerre di religione, ecc., per cui i suoi versi – splendidi, capolavoro della poesia tedesca quanto della mistica – non suonano affatto arcaici o lontani. Il secondo è che il suo capolavoro, il Pellegrino cherubico, non è solo la “versificazione di Eckhart”, come giustamente è stato detto, ma anche un vaso di raccolta di tutta la mistica occidentale (quest’ultima definizione è di von Balthasar). Infatti si vede bene, in esso, come armonicamente confluiscano e convivano i motivi classici – stoici, platonici e neoplatonici soprattutto – con quelli cristiani, dalla mistica speculativa più astratta, metafisica, a quella più sentimentale, del “cuore”. Non meraviglia che la lettura dei suoi versi, “incommensurabilmente profondi” (come li definisce Schopenhauer) sia raccomandata da Lacan quale propedeutica a tutti quelli che vogliono occuparsi di analisi della psiche.

Può indicare, in breve, la linea della mistica speculativa?

“Speculativa” è un aggettivo utilizzato dagli studiosi tedeschi dell’Ottocento per definire la mistica medievale di lingua germanica (o di lingue affini), in quanto in essa l’elemento razionale è predominante. Hegel, ad esempio, ha ben chiaro questo rilievo razionale, e perciò scrive: “Col concetto di speculativo bisogna intendere ciò che un tempo si soleva chiamare mistico. Oggi mistico suona come misterioso, ma si deve notare che è misterioso solo per l’intelletto finito. Esso, infatti, ha come principio l’identità astratta, mentre per il mistico – che è lo stesso di speculativo – lo è la concreta unità di quelle determinazioni che per l’intelletto finito valgono solo nella loro separatezza ed opposizione”. La mistica speculativa è in effetti dialettica, come diremmo oggi, e ciò è esplicitamente espresso dai suoi rappresentanti, Eckhart per primo: “Quando l’anima entra nella luce della ragione, essa non sa più niente degli opposti”– ovvero supera gli opposti – in primo luogo, ovviamente, l’opposizione Dio–uomo, o Dio–mondo. Un altro che lo comprese benissimo è Niccolò Cusano. In realtà nell’esperienza spirituale (io preferisco sempre questa espressione, rispetto al troppo equivoco “mistica”) di Eckhart ha, agostinianamente, un grande peso anche l’amore: come insegna Margherita Porete, i due occhi dell’anima sono intelligenza ed amore, ed è la loro cooperazione a fare “semplice” lo sguardo (Specchio delle anime semplici); però tra i due è l’intelligenza, la ragione, ad avere la preminenza, perché è essa che opera più potentemente ed inesorabilmente il distacco: comprendendo, riconducendo sempre all’umano, al finito, essa impedisce infatti di scambiare per assoluto qualcosa che è invece relativo, e così compie il servizio “religioso” essenziale: quello di rispettare la trascendenza del Bene, di Dio, che è sempre, platonicamente, epèkeina tès ousìas, al di là dell’essere, o dell’ente. In altre parole, è la ra- gione che sa distinguere il Dio vero dal Dio falso, ovvero quello che va pregato perché ci liberi dalle nostre produzioni immaginarie.

Quali sono le fonti greche della mistica speculativa?

Il concetto stesso di mistica è greco, pre–cristiano. Scriveva giustamente Simone Weil che il padre della mistica occidentale è Platone, in particolare col suo Convito, ove si descrive il cammino di amore/filosofia che ascende, di grado in grado, dal sensi- bile all’intelligibile, fino al Bello in sé, che è anche il Bene in sé. È ancora Platone che conia il termine e il concetto stesso di teologia, affermando peraltro che di Dio sappiamo soltanto che è buono e che da lui ven- gono solo beni – niente altro – e che non dobbiamo pensare tanto di “conoscere” Dio, quanto di “farci simili” a lui (homòiosis tò theò), liberandoci dalle catene della corporeità, distaccandoci da tutto ciò che è illusorio e ascendendo verso la luce, come si può leggere nella Repubblica, nel celebre mito della caverna.

Da Aristotele la mistica speculativa ha ripreso il fondamentale concetto di nous poietikòs, intelletto attivo: l’intelligenza pura, “separata”, non dipendente dal condizionamento dell’esperienza, che è eterna, divina, e costituisce l’essenza più vera dell’uomo. Questo è il concetto da cui deriva, attraverso varie mediazioni, il concetto stesso di spirito: non a caso il filosofo e teologo medievale Emerico di Campo potrà dire che “lo Spirito santo è la luce dell’intelletto attivo, che sempre risplende”, ed Eckhart ripete che lo Spirito Santo è dato solo a chi vive nella luce dell’intelletto – che è, appunto, il nous poietikòs aristotelico. Dall’eredità stoica, così profondamente passata nel mondo cristiano antico, la mistica riprende quel concetto di “fondo dell’anima” (Grund der Seele, in tedesco), o di “scintilla dell’anima”, o di apex mentis (tutte espressioni sostanzialmente equivalen- ti), che è quella parte, per così dire, dell’anima, che non è toccata da determinazioni di alcun genere e che è quella in cui abita Dio, e Dio soltanto. Dagli stoici viene peraltro anche la dottrina dell’amor fati, ossia l’amore per tutto ciò che avviene, visto come manifestazione della impersonale Provvidenza divina, che appare perfetta bontà e bellezza all’uomo distac- cato. L’uomo distaccato, di uguale animo in ogni istante, vive così l’istante presente come eterno.

Dal neoplatonismo, infine, e da Plotino in particolare, perviene alla mistica speculativa del mondo cristiano tutta la tematica dell’Uno, principio fontale dell’essere, da cui tutto eternamente proviene e tutto ritorna. Basti ricordare che proprio l’espressione stessa “teologia mistica” compare nel breve, omonimo, trattato di Dionigi detto Areopagita – quello sconosciuto autore del V–VI secolo dopo Cristo che i medievali consideravano il maestro della teologia mistica e che è tanto profondamente neoplatonico che alcuni studiosi hanno perfino messo in dubbio che fosse cristiano! Non a caso nel mondo protestante, da Lutero fino ai nostri giorni, la mistica viene guardata con sospetto e ostilità, dato che le si attribuisce un carattere appunto neoplatonico e non biblico–cristiano. Dal neoplatonismo proviene an- che il concetto di ineffabilità dell’Uno, e quindi il carattere appunto “mistico” – che significa originariamente riservato, silenzioso, segreto – dell’esperienza dell’Uno: quell’estasi che è prima di tutto un en–stasi, ossia un rientrare in se stessi, nel più profondo dell’anima nostra (ricordiamo ancora una volta l’appello di Agostino: “In te ipsum redi”, rientra in te stesso…).

(1)Oltre a Meister Eckhart, Marco Vannini ha curato l’edizione italiana della Teologia mistica di Jean Gerson (Paoli- ne 1992); il Libretto della vita perfetta, o Teologia tedesca, dell’Anonimo Francofortese (Newton Compton 1994, poi Bompiani 2009); le Prefazioni alla Bibbia di Lutero (Marietti 1997); Mistica d’Oriente, mistica d’Occidente di Rudolf Otto (Marietti 1985); la Spiegazione delle massime dei santi sulla vita interiore di Fénelon (San Paolo 2002); i Paradossi di Sebastian Franck (Morcelliana 2009); Conversione e distacco di Valentin Weigel (Morcelliana 2010); in collaborazione con Giovanna Fozzer, il Pellegrino cherubico di Angelus Silesius (Paoline 1989) e Sapienza misti- ca di Daniel Czepko (Morcelliana 2005); con Giovanna Fozzer e Romana Guarnieri, lo Specchio delle anime sem- plici di Margherita Porete (San Paolo 1994). Ha diretto la Collana «I Mistici» dell’editore Mondadori, pubbli- cando una trentina di autori, antichi, medievali, moderni e contemporanei. Tra i suoi principali lavori ricordia- mo: Lontano dal segno. Saggio sul cristianesimo (La Nuova Italia 1971); Dialettica della fede (Marietti 1983);Nietz- sche e il cristianesimo (D’Anna 1986), Meister Eckhart e «il fondo dell’anima» (Città Nuova 1991); L’esperienza del- lo spirito (Augustinus 1991); Introduzione a Silesius (Nardini 1992), Il volto del Dio nascosto (Mondadori 1999), In- troduzione alla mistica (Morcelliana 2000), La morte dell’anima. Dalla mistica alla psicologia (Le Lettere 2003), La mistica delle grandi religioni. Induismo, buddhismo, ebraismo, islam, cristianesimo (Mondadori 2004, poi Le Lettere 2010), Storia della mistica occidentale. Dall’Iliade a Simone Weil (Mondadori 2005, nuova edizione 2010), Tesi per una riforma religiosa (Le Lettere 2006), La religione della ragione (Mondadori Bruno 2007), Mistica e filosofia (Piem- me 1996, nuova edizione Le Lettere 2007), Sulla grazia (Le Lettere 2008), Invito al pensiero di Sant’Agostino (Mur- sia 20092), La mistica delle grandi religioni (Le Lettere 2010), Prego Dio che mi liberi da Dio (Bompiani 2010).

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