Martedì è stato reso pubblico il documento «I criteri di accertamento della morte», approvato il 25 giugno dal Comitato nazionale per la bioetica. Il Comitato, al termine di una riflessione articolata, dichiara accettabili quei criteri neurologici di accertamento della morte «che fanno riferimento alla cosiddetta “morte cerebrale totale” e alla cosiddetta “morte del tronco encefalo”, intese come danno cerebrale totale, irreparabile che ha provocato uno strato di coma irreversibile». Su questa identificazione tra morte cerebrale e morte in assoluto (condivisa dal nostro ordinamento giuridico) si incentra la critica di Becchi, che insegna Filosofia del diritto all’Università di Genova e ha esposto nel 2008 le proprie teorie in un testo edito da Morcelliana, «Morte cerebrale e trapianto di organi». «Immaginiamo – ha spiegato il relatore – un grave trauma cranico con arresto respiratorio. Alla fine degli anni ’50, le tecniche di rianimazione con ventilazione artificiale accrescono le possibilità di mantenere in vita questi pazienti. Ma da quel momento può accadere che il corpo riprenda a funzionare senza che il soggetto si risvegli né reagisca agli stimoli». Comincia qui il mutamento della nostra percezione di vita e morte. Due date sono fondamentali: «Nel dicembre 1967 Christiaan Barnard realizza il primo trapianto cardiaco. Nell’estate successiva un comitato medico di Harvard produce la prima definizione di morte cerebrale». Tra i due eventi c’è, secondo Becchi, una relazione che viene spesso taciuta: «Per favorire lo sviluppo dei trapianti era necessario disporre di organi, e i pazienti in condizione di morte cerebrale si prestavano perfettamente a tale necessità».
La definizione di Harvard «da un lato permetteva di staccare il soggetto dalle macchine quando non c’era più nulla da fare. Dall’altro di tenervelo attaccato per l’espianto di organi senza porsi problemi morali, perché legalmente si trattava di un cadavere». Becchi precisa di non essere contrario al trapianto d’organi, «a determinate condizioni»: ma una questione sostanzialmente etica, dice, non può essere risolta da un’apparente certezza scientifica. «Tra gli scienziati sono nate voci critiche. Alcune ricerche sostengono che anche in un morto cerebrale non c’è perdita irreversibile di tutte le funzioni del cervello. Nel 2008 il professor Edmund Pellegrino, presidente del Comitato etico americano, ha preso le distanze dal documento sulla morte cerebrale elaborato dallo stesso Comitato». La morte è un processo naturale che inizia quando il respiro si interrompe e tutto il corpo si ferma. «Nel concetto di morte cerebrale, invece, il classico dualismo anima-corpo si reincarna nella separazione tra cervello e corpo. La vicenda biologica dell’uomo viene allontanata da quella razionale e il corpo diventa un conglomerato di parti separabili. Ma il volto, la figura sono la traccia visibile della persona».
Questioni difficili, che Becchi ha cercato di divulgare con termini e metodi a tratti un po’ sbrigativi. Come quando ha invitato l’assessore alla cultura di Pompiano, Silvana Gabelli, a sdraiarsi sui gradini della villa per interpretare il ruolo del «corpo quasi morto» oggetto del discorso. Ne è nata comunque una discussione stimolante, ennesimo buon esito del festival. Francesca Nodari – direttrice scientifica di «Filosofi lungo l’Oglio» - e lo sponsor principale, la Banca di Credito Cooperativo di Pompiano e Franciacorta, si dichiarano giustamente soddisfatti. Le conferenze sempre interessanti, seguite con partecipazione da un pubblico competente, e i circa 40mila contatti sul sito internet sono segni di buona salute del pensiero, troppe volte dato per «quasi morto».
Nicola Rocchi - Giornale di Brescia, 22 luglio 2010