Salvatore Natoli.
Classe 1942, è nato a Patti (Messina). Ha insegnato Logica all'Università Ca' Foscari di Venezia, Filosofia della politica all'Università Statale di Milano, Filosofia teoretica ed Etica sociale all'Università di Milano-Bicocca, Filosofia teoretica all'Università di Bari, Storia delle idee all'Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Tra le sue pubblicazioni: La salvezza senza fede (Feltrinelli); Il buon uso del mondo (Mondadori); L'esperienza del dolore (Feltrinelli); Il rischio di fidarsi (Il Mulino); La mia filosofia (ETS, a cura di Francesca Nodari).
«Oggi non si può parlare di rifiuto dell'annuncio cristiano, come poteva essere nel grande ateismo otto-novecentesco. Oggi l'annuncio non viene neanche sentito bene. La notizia non arriva alle orecchie. Se non di striscio».
Salvatore Natoli, filosofo laico, non cristiano, ha smesso di credere in Dio a furia di volerne dimostrare l'esistenza, nel tentativo di dare ragione della sua fede. «Ad un certo punto mi sono innamorato del ragionamento. E Dio è sparito». A suo parere è anche una sintesi della modernità: «L'uomo ha ereditato il bisogno di salvezza, ma ha perso Dio».
Eppure lui non ha mai smesso di confrontarsi con il cristianesimo. Vi ha dedicato scritti, studi, dibattiti pubblici e personali. Ha appena letto la lezione di don Luigi Giussani proposta alla Giornata di inizio anno di CL e si è soffermato su queste parole: «Come hanno fatto a incominciare a credere?». È la domanda che pone Giussani, parlando di Maria, dei pastori, dei magi, dei discepoli, del coinvolgimento della vita dei primi con l'annuncio che li aveva raggiunti.
Perché la colpisce?
Leggendo Giussani vedo ricorrere spesso due parole - incontro e presenza - e mi viene in mente una bellissima espressione di Kierkegaard: «Credere vuol dire divenire contemporanei di Cristo». È notevole. Incontrare questa figura che evidentemente non solo dice delle cose, fa delle proposte, ma si presenta lui stesso come proposta vivente non coincide con una dottrina, ma è l'assunzione di una forma di vita. È avere un rapporto vivente con una persona. Qui, vengono i miei interrogativi. L'annuncio di Cristo è polivalente, la narrazione della sua figura dipende dai diversi modi dell'incontro con lui. Basti pensare ai Vangeli apocrifi o alle diverse crístologie che si sono sviluppate nel corso della storia, anche all'interno della Chiesa. Pure il carisma di Giussani è un modo particolare di incontro con Cristo, tramite una riformulazione dell'annuncio che è la sua. Stando al linguaggio, mi pare che lui ritenga che i primi abbiano trovato in Gesù qualcuno che ha riempito un vuoto esistenziale o, comunque, un "bisogno di senso". Io credo che oggi, fra i tratti caratterizzanti del cristianesimo, alcuni abbiano mantenuto la propria forza ed altri siano divenuti di sfondo.
Cosa intende per «tratti caratterizzanti» del cristianesimo?
In primo luogo, c'è il Risorto. Quindi la liberazione definitiva dal dolore e dalla morte, la vita eterna. Per dirla nei termini classici del Credo: exspecto resurrectionem mortuorum et vitam venturi saeculi. Ma nel frattanto? L'ordo amoris, la pratica della carità come anticipazione della vita eterna: infatti, quando questa giungerà dice san Paolo -, fede e speranza spariranno e resterà solo l'amore. Ora, di questi aspetti, alcuni sono resistenti e risultano a tutt'oggi convincenti, altri se pur mai negati hanno guadagnato progressivamente lo sfondo.
Quali resistono e quali sono divenuti di sfondo?
Nel cristianesimo contemporaneo - e quí ragiono da sociologo - si è realizzato un progressivo slittamento dal Christus aeternus il Risorto al Christus caritas. Per me, ma píù in generale per il mondo contemporaneo, il "secondo" resta attrattivo ed è, per di più, perfettamente ortodosso: è la lettera di Giovanni, ubi caritas Deus ibi est. Pare, invece, abbiano guadagnato lo sfondo gli aspetti un tempo dominanti: in primis la risurrezione dei morti, la promessa di vita eterna. Più in generale, l'assetto dogmatico del cristianesimo. Tutto questo lo vedo presente negli stessi credenti. Gesù è divenuto un "indirizzo di vita". Anche in Giussaní vedo l'annuncio di un Cristo che è significativo perché incontra gli uomini nella loro vita terrena, riempie i vuoti della vita, fa stare meglio.
Ma Giussani descrive una «realtà imprevista e imprevedibile», una «novità assoluta». Dice che il cristianesimo è «ben altro» dalla cristianità, intesa come tradizione culturale, formule di pensiero, atteggiamenti pratici, forme... E lei, ne Il cristianesimo di un non credente, scrive: «Se il cristianesimo non annuncia il Risorto si risolve in morale. Sepolto come fede, sopravvive come episodio delle civiltà o al meglio vive come mito».
La differenza tra cristianesimo e cristianità io credo sia avvenuta, a titoli diversi, lungo tutta la storia della Chiesa. La Chiesa deve sempre tornare all'origine, perché essa stessa si accorge di divergere da quell'inizio. Da qui l'espressione: Ecclesia semper reformanda... Non posso separare la cristianità dal cristianesimo: non sarebbe possibile un rinnovarsi dell'annuncio cristiano senza la Chiesa, perché la Chiesa, pur tradendolo, continua a trasmetterlo. Senza la cristianità, con tutti i suoi errori, sarebbe impossibile questo ritorno all'inizio. In un contesto dove è più alta la dimenticanza, dove è andata in crisi la cristianità storica, in cui la proposta del Gesù della tradizione non funziona più, Giussani riformula l'idea di incontro. Mi pare che offra la proposta cristiana come unica e risolutiva: per lui Gesù è e resta il Risorto, ma, stando al testo, lo presenta più come chiave risolutiva dei problemi dell'esistenza che come «primizia dei risorti». Certo, eritis mihi testes, ma fino a che punto i testimoni sono credibili? Gesù dice: «Li riconosceranno dalle opere». Ebbene, se il loro agire «apporta salvezza», anche chi non crede può dare credito alla fede che lo ispira. E poi, per stare al nome della vostra comunità, un agire che libera e non asserve può essere un terreno comune per chi crede e chi non crede.
Diceva che oggi l'annuncio cristiano non si sente nemmeno.
C'è un'espressione di Nietzsche che dice più o meno questo: Dio era importante quando si cercava di dimostrarne l'esistenza, perché il fatto che ci fosse un dibattito così intenso attestava che "la questione di Dio" era importante. Oggi non se ne discute più, perché non costituisce più un problema. Infatti, mi sembra che la fenomenologia religiosa, non solo in Giussani, sia concentrata sull'incontro personale. Non si parte più dalla dimostrazione.
Possono essere le vite delle persone a "parlare" di Dio.
Del Dio di Gesù. Ma non è più "la questione di Dio" da argomentare.
Ma lei perché ha preso e continua a prendere così sul serio il cristianesimo?
Qui si passa all'elemento biografico... Io ho avuto una formazione cattolica, con le caratteristiche del cristianesimo di allora, l'oratorio, l'Azione Cattolica. Poi per usare il vostro linguaggio nella vita contano gli incontri. Ed io ho incontrato un professore di filosofia. Era marxista e molto bravo, lo stimavo tantissimo. Dinnanzi a una persona che stimi e che non crede, c'è un rebound: ha ragione lui o io? Sotto la spinta della provocazione di un punto di vista diverso, ho cercato di dare «Gesù dice: "Li riconosceranno dalle opere". Ebbene, se il loro agire "apporta salvezza", anche chi non crede può dare credito alla fede che lo ispira» ragione razionale alla mia fede, sia per giustificarla a me stesso, sia per avere buoni argomenti contro i suoi. Nel tempo si è sviluppato un gusto del ragionamento che ha fatto sparire Dio. È rimasta la filosofia.
Pensa di aver perso qualcosa in questo percorso?
In questo passaggio non è sparita la figura di Cristo. Per usare un linguaggio tipico della teologia del Novecento, io per mia strada ho prodotto una demitizzazione: mi ha convinto sempre di meno la trascendenza e mi ha persuaso la forma di vita di Gesù Cristo. Per esempio, la disposizione a farsi carico della vita degli altri: la donazione. L'«assoluta novità» di cui parla Giussani, per me, è nel fatto che Cristo mostri agli uomini ciò che loro possono divenire, ciò che è nelle loro possibilità, rinunciando al proprio egoismo. Questo è ciò che di Cristo, o meglio del modo in cui Cristo è raccontato, mi convince.
Perché la convince?
Perché ne vedo la fecondità. Mentre la questione della divinità per me è una costruzione.
Ma un'umanità che tanto ci affascina ci pone la questione di cosa la generi. Non c'è Cristo senza il rapporto con il Padre.
Se considero la figura raccontata nei Vangeli non posso capirla senza quel rapporto. Ma capisco come Gesù vive quel rapporto: il suo è il Dio di Israele e lui si comporta da israelita. So che il mio discorso si oppone a tutta la teologia tradizionale, ma userei l'espressione: più che figlio, si sente figlio, vuole essere totalmente coerente con la volontà del Padre. In Gesù si radicalizza qualcosa che c'era prima di lui la regola aurea che appartiene a tutte le forme di vita religiosa, sociale e politica: non fare all'altro quello che non vorresti fosse fatto a te e va oltre: fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te. È la formulazione della misericordia: non è più soltanto un appello alla giustizia, a non fare il male. Perché, siccome il male circola nel mondo, questa tua giustizia personale è troppo poco. Per riscattare te stesso dal dolore, devi farti carico del dolore dell'altro, dell'umanità.
Ma basta la redenzione attraverso le nostre azioni per vivere?
Oggi è rimasto l'uomo. L'uomo che diventa garante della propria salvezza. La grande mitologia della salvazione oggi è la tecnica, il progresso, attraverso cui gli uomini hanno ritenuto di potersi, non dico esonerare, ma liberare dal male, e dai bisogni. Con un abbandono graduale della trascendenza. Ma l'uomo sporge e sporgerà sempre sul confine del mistero. Allora questo sfondo di mistero viene variamente coperto da scenari, veli, soluzioni temporanee... Ci sono modalità in cui l'uomo trova forme di vita capaci di "starci dentro"; in altri probabilmente sempre meno si crea la condizione per il salto. Ovvero, questa esposizione al mistero può produrre dinamiche autentiche di ricerca, ma dà anche occasioni di meccanismi surrogatori, pannicelli caldi.
Lei scrive: «La mancanza ci definisce».
È esattamente quello che sto dicendo.
Davanti a questa mancanza, che contributo è per lei l'esperienza cristiana?
Il credente è una presenza in un certo senso originale. Potremmo dire inquietante. Stare a contatto con persone credenti ti suggerisce due atteggiamenti: quello riduzionista, per cui chi crede è arretrato o delirante, folle; oppure, il prenderlo sul serio. Il dire: «Questo qui sta vivendo un'esperienza altra». Non credi in quello che dice, ma lo prendi sul serio.
In base a quello che vede?
Sì, in base a come agisce. Cominci a capire se la sua esperienza è generativa di fecondità, o se è dístorsiva. Ma lo comprendi se lo prendi sul serio, senza pregiudizi. Tutti quelli che vivono la carità, anche nei modi più quotidiani, tutti quelli che la incarnano, mi mostrano la fecondità del cristianesimo, la capacità di produrre il bene, che per me coincide con il generare felicità. Io cerco di accostare così questa esperienza, anche se non posso viverla, perché per viverla dovrei entrare in quella dimensione. E se non entri... Entrare secondo lei è una decisione? C'è, sempre, una componente di decisione, ma che ha come proprio incastro una sollecitazione. Non è detto che la fede dell'altro sia un'esperienza talmente cogente da farti fare il passo che ha fatto lui. Puoi rimanere in una dimensione di interrogazione, curiosa... non oltre.
Per lei è così?
Ho incontrato persone che mi hanno fatto capire che il rapporto con il cristianesimo ha un potenziale di bene elevatissimo, fa sprigionare energie che senza il mito originario non fiorirebbero. E che ha una incidenza di carità e giustizia. Ma questa carità e giustizia hanno un nesso con il bisogno di senso, di salvezza, da cui siamo partiti? Ce l'hanno, perché Gesù ti dà un indirizzo di vita. Fare quello che ha fatto lui fa bene alla vita: è bene, è fecondo. Ecco perché dà senso.
Lei scrive che la carità cristiana «non è un fare, è soprattutto ed essenzialmente un modo d'essere, vestire una seconda natura», perché è «azione di Dio nell'uomo».
È dai frutti che io riconosco l'albero. Il cristianesimo non è soltanto fare del bene, però quello resta un indicatore della sua fecondità. Perché l'Altro io non lo vedo, lo sperimenta chi crede: io davanti al credente riconosco che è un bene da quello che viene "fuori" da lui. Esiste uno scarto, che non può essere nulla di più che un interrogativo. Interrogativo che significa non chiudere la partita. È non dire: io so tutto. Questa esperienza, nell'altro, c'è.
fonte: TRACCE LITTERAE COMMUNIONIS