Oggi, nella società occidentale, segnata sempre più dalla subordinazione del pensiero agli interessi dell'economia, la metamorfosi del ruolo degli intellettuali è in pieno corso. Meglio usare un eufemismo, senza stilare un obituary, un necrologio. Non sono più una élite, ma uno sciame, tanto per usare un titolo di Francesco Antonelli. Altro che sapienti illuminati di una Benda preveggente Il «tradimento dei chierici» continua a contrassegnare il nostro tempo volta, con l'ascesa della Rete sono diventati lavoratori della conoscenza che producono opinione pubblica. E questo quando va bene, perché nell'epoca liquida dell'istantaneità frenetica e della virtualizzazione del reale c'è il pericolo che altri cervelli (digitali) pensino al nostro posto.
Forse è iniziata una mutazione antropologica. Ermanno Bencivenga, logico e filosofo del linguaggio, l'ha chiamata «catastrofe gentile»: silenziosa, inarrestabile, letale. La risorsa più preziosa dell'uomo, il ragionamento, sta scomparendo. E in tutto questo i maestri, quelli che avevano il dono della rivelazione, che fine hanno fatto? Se lo chiederà stasera Francesca Nodari, la direttrice scientifica del Festival Filosofi lungo l'Oglio, rassegna che lei stessa ha ideato, mettendosi in gioco per affrontare un tema cruciale nell'ambito della parola-chiave «condividere», dal titolo intrigante e proustiano: «Alla ricerca del maestro perduto».
«Viviamo in una società - sottolinea Francesca Nodari, discepola di Bernhard Casper e in sintonia con Emmanuel Lévinas, per il quale l'unica possibile conoscenza è quella dei princìpi primi dell'agire morale - in cui si parla molto: troppe parole parlate (chiacchiere) e non parlanti. Ci si insulta nei talk show tv e sui social, sono venuti meno i rapporti di relazione, dunque anche con i maestri».
Qualche anticipazione del suo intervento?
«Il bisogno dell'altro e la grande questione del linguaggio: sono questi i temi. Una antico proverbio tedesco dice: parla così ti si vede. Uno si afferma quando parla e l'esperienza del linguaggio si invera nel rapporto tra maestro e allievo. Oggi si parla tanto di paideía, della necessità dell'educazione. Giusto, ma il problema è far sì che l'educazione non sia solo erudizione o mera trasmissione di un sapere. E importante non solo cosa si trasmette, ma soprattutto come e chi. L'etimologia della parola educare (tirare fuori) è chiara. La vera cultura è proattiva, non statica».
Può fare degli esempi concreti?
«Lévinas sostiene che ciascuno di noi ha dei bisogni primari (aria, acqua...) per mantenersi in vita. Ma c'è un bisogno superiore, quello per cui viviamo e abitiamo in una relazione con l'altro che ci ascolta. E questa relazione mette in discussione l'ossessione dell'io moderno, ovvero l'ossessione del potere, di ridurre tutto a sé. Ebbene tra maestro e allievo si verifica la situazione più alta di questo rapporto, che si fonda su tre condizioni per essere fecondo: sperare insieme per il presente, non essere indifferenti (la misericordia) e poi la fiducia. Ma la speranza sarebbe una passione debole, la misericordia potrebbe ridursi a solidarismo, se non c'è la fiducia reciproca. L'allievo è libero di diventare se stesso, il maestro lo lascia solo, ma sta dietro».
Oggi però il web (le famigerate fake news) ha espropriato i maestri delle loro esperienza, escludendoli dalla trasmissione del sapere...
«Vero. Bisognerà rimettersi in strada e cercare con fatica. I maestri ci sono e sono i soli che possono dare la direzione in virtù del capitale che hanno accumulato nella loro vita e soprattutto per le tensioni che hanno verso l'Altro».