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Lunedì, 22 Marzo 2010 01:00

Non smettere di amare e di ricostruire

Scritto da
rav Giuseppe laras rav Giuseppe laras

Nel salone del Castello di Barco di Orzinuovi si è tenuto il quinto incontro - promosso dal Gruppo Culturale Selichot - nell’ambito del ciclo dedicato, quest’anno, a «Una lettura ebraica del Libro di Giobbe», che avrà come ospite d’eccezione il prof. Giuseppe Laras. Studioso e conferenziere di fama internazionale, presidente dell’Assemblea Rabbinica Italiana, del Tribunale Rabbinico dell’Alta Italia nonché della Fondazione Maimonide di Milano, Rav Laras è un «tessitore» instancabile del dialogo ebraico-cristiano. Per l’occasione lo abbiamo incontrato.

Prof. Laras, che cosa ci insegna Giobbe oggi, restando un testo così attuale?

Il libro di Giobbe pone l’eterno problema della sofferenza e dei possibili perché della stessa. Al contempo accenna al lettore varie possibili spiegazioni, di cui alcune non pienamente soddisfacenti come l’antica equazione «sofferenza conseguenza del peccato». La figura di Giobbe può diventare una figura emblematica, specie in relazione alla tragedia della Shoah. È difficile non ravvisare un certo parallelismo fra la distruzione della sua famiglia (i dieci figli) e quella degli innumerevoli uomini e donne che hanno perduto nel fuoco di Auschwitz i loro familiari e i loro amici, salvando appena le proprie persone. La reazione dei sopravvissuti e il loro dramma, sempre in quest’ottica interpretativa, può forse essere accostata a quella di Giobbe, che si dispera, che si interroga, che urla e che protesta, e che, alla fine, nonostante tutto, riprende a vivere. Questo ritorno alla vita, tuttavia, sia nel caso di Giobbe sia nei casi dei superstiti della Shoah, non significa che l’infranto si sia ricomposto né tanto meno oblio dei propri cari perduti nei forni dei campi di sterminio, giacché il loro ricordo persiste e accompagnerà per sempre i loro giorni.

Dopo la tragedia e la sofferenza che ha comportato la Shoah si può, oggi, secondo lei, parlare ancora di «amore»?

Io credo fermamente di sì, in quanto l’amore è quella energia spirituale che ci aiuta a vivere e a costruire il futuro. Nonostante la testimonianza tremenda e feroce offerta dal nazismo contro un’intera collettività, colpevole di essere solo fedele alla propria identità, oltre che possibile appare indispensabile la continua riscoperta dell’amore, che, in altre parole, è la determinazione ad andare avanti nonostante tutto. Smettere di amare e di ricostruire equivarrebbe, in un qualche modo, a dare una vittoria postuma ai responsabili di quanto accadde sessant’anni fa.

Alla luce della sua lunga esperienza rabbinica qual è, a suo avviso, lo stato del dialogo ebraico-cristiano oggi?

Il dialogo ebraico-cristiano attraversa attualmente una fase che definirei «stagnante », benché abbia conosciuto, anche nel passato più recente, momenti di ben altro entusiasmo e impegno da entrambe le parti. Le preoccupazioni e le polemiche degli ultimi tempi hanno, purtroppo, raffreddato non poco gli animi, inducendo un moto in direzione del disimpegno. Dobbiamo, oggi, saper riprendere il filo del discorso, riaccendere l’entusiasmo e cercare con ottimismo di procedere, nella consapevolezza che al Dialogo è affidato il nostro futuro. Spesso ci dimentichiamo che il Dialogo fino a pochi decenni fa non è mai esistito: al suo posto, invece, sono esistiti momenti di contrapposizione. Con la nascita recente del Dialogo sì è, per così dire, voluto voltare pagina, inaugurando un’era di riavvicinamento, di chiarificazione e di riappacificazione, che, in molti casi, ringraziando Dio e chi si è speso in questa direzione, è andata ben al di là, significando amicizia sincera e vicendevoli stima e apprezzamenti. Si pensi al caso felice (ed in parte unico) di Milano, tra la Comunità Ebraica da una parte e le varie Chiese Cristiane (ad esempio la Chiesa Cattolica ambrosiana e la Chiesa Valdese) dall’altra. Quello del Dialogo è un bene inestimabile che nessuno ha il diritto di dissipare o di «usare» per secondi fini. Si tratta di una rinnovata e fondamentale «proprietà comune» a ebrei e cristiani riavvicinati, seppur ben distinti, nelle rispettive preziose identità. Ametà aprile, al Centro culturale S. Fedele di Milano, si terrà un incontro pubblico tra lei e il cardinale Dionigi Tettamanzi dal titolo «Vivere alla luce della Pasqua». Quale messaggio particolare può, secondo lei, scaturire da questo importante incontro? Anzitutto desidero, con grande commozione, ricordare la vecchia, intensa amicizia e l’appassionato lavoro svolto insieme al cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo emerito di Milano, che è - a mio avviso - uno dei massimi e più nobili testimoni del nostro tempo. Insieme con il cardinale Dionigi Tettamanzi, con il quale, del pari, intrattengo rapporti di amicizia, di stima e di affetto profondi, faremo una riflessione comune sulla necessità di portare avanti un dialogo sincero, che sia così produttivo di pace e di rispetto reciproco. Il nostro tempo ha bisogno di autentiche testimonianze di pace e di profonda fraternità e vicinanza. Solo così potremo dare una testimonianza di amore, magari forse modesta in apparenza,mafondamentale per l’edificazione di una società sempre meno attraversata da dissidi e da risentimenti.

Giornale di Brescia - 22 marzo 2010 - Francesca Nodari

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