Associazione culturale Filosofi lungo l’Oglio, intende inaugurare una sezione di approfondimento invernale dedicata alla Shoà, destinata a divenire un appuntamento fisso nel calendario annuale delle attività dell’Associazione.
L’ Associazione culturale Filosofi lungo l’Oglio, con al suo interno, un Comitato d’Onore così costituito: Bernhard Casper, Salvatore Natoli, Adriano Fabris, Aldo Magris, Maria Rita Parsi, Amos Luzzatto, Ilario Bertoletti e in patnership con la Fondazione Movimento Bambino – presieduta da Maria Rita Parsi – con la quale è stato siglato un prestigioso gemellaggio – intende proporre un percorso capace di indagare da un punto di vista filosofico, storico, teologico, letterario che cosa è stato per fare della memoria non una mera cerimonia pubblica, ma un momento di riflessione e di approfondimento che non può non tener conto sia dell’attuale panorama geopolitico sia dello spettro di un antisemitismo di ritorno proclamato a più voci dai cosiddetti negazionisti. Antisemitismo che non può non chiamarci in causa, tanto più in mondo globalizzato, complesso e in fermento quale è quello in cui abitiamo.
Riteniamo, inoltre, rimarchevole il fatto che questo ciclo di incontri – proprio per gli argomenti che toccherà da vicino e le inevitabili implicazioni – possa, per così dire, costituire una sorta di preambolo al tema prescelto per la VII edizione del Festival Filosofi lungo l’Oglio: dignità.
Come è elemento costitutivo del nostro Festival, la rassegna, fedele al binomio luogo-pensiero e al format di un circuito itinerante e, dunque, di una cultura radicata sul territorio, si articolerà in sette incontri complessivi (tutti ad ingresso libero) che si terranno dal 12 gennaio al 24 febbraio 2012. Accanto ai Comuni già teatro delle precedenti edizioni del Festival Filosofi lungo l’Oglio: Brescia, Castrezzato, Orzinuovi, Villachiara, Ostiano, spicca l’ingresso significativo delle realtà municipali di Corzano e Travagliato.
I relatori saranno, come è consueto, di elevata caratura. Da Gabriele Nissim – giornalista, saggista e presidente del Comitato per la Foresta dei giusti – a David Bidussa – scrittore, giornalista, saggista nonché storico delle idee, una disciplina che comprende un insieme di competenze culturali: storia sociale, semiotica, teoria della letteratura, storia delle dottrine politiche, storia dei partiti e dei movimenti politici. Da Rav Giuseppe Laras – tra i 5 rabbini più influenti nel mondo, per oltre 25 anni rabbino capo di Milano, presidente della Fondazione Maimonide nonché figura chiave, nel panorama nazionale, del dialogo ebraico-cristiano, sulla scia della fraterna amicizia e collaborazione con il Cardinal Carlo Maria Martini – ad Amos Luzzatto – medico, scienziato e biblista, già presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e già direttore della «Rassegna mensile di Israele» nonché presidente della comunità ebraica di Venezia – a Massimo Giuliani – professore associato di Studi Ebraici e di Ermeneutica filosofica all’Università di Trento e Visiting Associate Professor nel dipartimento di Filosofia e di Studi religiosi della George Mason University (Usa). E ancora da Paolo De Benedetti – considerato uno dei maggiori e più originali studiosi contemporanei dell’Ebraismo e già docente di Giudaismo presso la Facoltà teologica dell’Italia settentrionale e di Antico testamento presso gli Istituti di Scienze Religiose dell’ Università di Urbino e di Trento– a Salvatore Natoli – uno tra i più importanti pensatori italiani, ordinario di Filosofia teoretica all’Università Milano-Bicocca e tra i filosofi contemporanei più apprezzati dal mondo ebraico.
PERCHÉ UN CICLO SULLA SHOÀ?
Perché un ciclo sulla Shoà? Mai come in questo periodo storico si avverte il bisogno di fare memoria. Mnemosyne,nella mitologia greca depositaria della memoria collettiva, madre delle nove muse evocate dai poeti sin dall’Iliade e dall’Odissea per eternarne il messaggio, è divenuta oggi, se così si può dire, garante di quella memoria del passato, senza la quale non vi può essere presente né futuro, e grazie alla quale, viene affermata e garantita l’identità e la dignità di chi non è non è più tra noi. La Shoà – ritenuta una cesura della storia, e non soltanto della storia del popolo ebraico – rappresenta, al di là della sterile dialettica tra particolarismo e universalismo, un contro-evento – come ebbe modo di definirla Arthur A. Cohen – che proprio per il tremedum cui rinvia , proprio per l’abisso di male che evoca non può non chiamare in causa la coscienza collettiva, l’umanità che abita ogni essere umano, per provocarne quella domanda che non avrà mai una risposta ultima o definitiva: che cosa è stato? Ma che, tuttavia, ci invita, anzi ci obbliga moralmente a riflettere, a capire, ad ascoltare, a metterci in discussione.
Sono molti pensatori ebrei e non, i filosofi, i teologi, i rabbini, gli studiosi che si sono confrontati con questo fatto estremo. Da Richard L. Rubenstein che definì la Shoà «il Sinai del nostro tempo» a Ignaz Maybaum che intravide nella morte innocente degli oltre sei milioni di ebrei il darsi di un sacrificio vicario ed espiatorio per i peccati del mondo, a Elie Wiesel, Premio Nobel per la pace nel 1986, che arrivò a dire che «è impossibile continuare a credere, ma è anche impossibile non credere più».Lui che quei campi dell’orrore vide da vicino e che perse tutta la sua famiglia nei lager, riporta in auge quella discussione con Dio, che non è negazione di Dio, ma rifiuto – si pensi solo al celebre saggio La Notte – di ogni forma di teodicea così come della teologia edulcorata degli amici di Giobbe. Il suo, più che un dio sadico o indifferente, è un Dio che vede e tace, ma che piange di nascosto, che afferma, secondo un famoso midrash: «I miei figli mi hanno vinto». Wiesel introduce al grande tema dell’assenza di Dio, al Dio muto o non (più) onnipotente, per dirla con Hans Jonas.
Ad un Dio presente nella sua assenza, nel suo nascondimento per mezzo di quegli ebrei, sostiene Eliezer Berkovits, che santificarono gli ultimi atti della loro vita in suo nome. È l’hester panim, è la proclamazione del tredicesimo precetto di fede di Maimonide: «io credo nella venuta del Messia, e sebbene egli tardi, attenderò ogni giorno la sua venuta». Vale a dire: come da ebrei siamo vissuti, così da ebrei moriremo. Al punto che, sostiene Emile Fackenheim, la riparazione (il tiqqun) sostenuta da coloro che morirono santificando il nome, diventa condizione di possibilità per qualsiasi altro tiqqun. Cambia il punto di vista, la pre-comprensione filosofica: non si tratta tanto o solo di spiegare la definizione del male, se è vero che, come ricorda Levinas, «la sproporzione tra la sofferenza e ogni teodicea appare ad Auschwitz con una chiarezza che cava gli occhi», ma di dare corso a quel 614° precetto: sopravvivere per non dare una vittoria postuma ad Hitler. La Shoà è un evento senza precedenti non solo perché si è trattato della messa in opera di una macchina che aveva di mira la soluzione finale – l’esistenza di ogni ebreo era considerata un crimine da punire –, ma anche perché da quell’istante ciò che era umanamente impensabile, è divenuto storicamente possibile. In quei dodici anni di furia nazista non era più dato di morire da individuo, ma come «ridotto ad esemplare, a tipo della specie», mentre il nuovo modo di vivere era quello del muselmann «che nello slang dei campi di sterminio indicava il prigioniero prossimo alla morte, il quasi-cadavere». Dinnanzi a una tale follia identitaria che inneggia alla razza superiore, può forse bastare la risposta del giudaismo dell’esilio, il morire per Santificare il Nome? Aveva forse il muselmann la possibilità di scegliere? Poteva, forse, quel milione e mezzo di bambini, il cui nome viene scandito ininterrottamente a Yad wa-Schem, possedere la capacità di discernere? Qui il male radicale o demoniaco che Hanna Arendt non esitò a definire banale si tocca con mano. Trasuda di dis-umanità, è la cifra di quell’anti-mondo che fu la Shoà. Contemporaneamente, in questo punto, tocca la sua acme l’intuizione di Fackenheim: la resistenza al male come risposta al male diventa una chance sia per il giudaismo che per la teologia cristiana. Il male resta la penultima parola, la responsabilità fino a farsi levinasianamente con-il-proprio-corpo-ostaggio-per-l’altro – come non ricordare i giovani della Rosa Bianca? – la sola via verso il bene. A ragione, Levinas è ritenuto con Fackenheim, «l’ispiratore di una filosofia della resistenza al male». Non è casuale, dunque, se il Levinas prigioniero dello stalag 1492 del campo speciale per prigionieri di guerra nella regione di Hannover, arrivi a parlare della perversa felicità nella sofferenza, lenita da quel bacio divino, che alimenta la «speranza per il presente». In questa possibilità che si dà ai prigionieri di guerra come Levinas di avere ancora del tempo da far fruttare, a differenza dei confratelli ebrei destinati irrimediabilmente all’orrore dei forni crematori, matura quell’epoché esistenziale da cui si schiude il senso ultimo della nostra umanità, la cifra nel nostro «io sono»: la felix culpa
Come dire: il soggetto incarnato è colpevole di divenire autentico, colpevole di una colpa pre-etica e pre-morale che lo mette dinnanzi alla necessità del doversi decidere ad iniziare-qualcosa-con-stesso. Il «dovere felice» di amare l’altro, questo teologumeno interpretato da Levinas in maniera pre-cristiana, si precisa come quella sfida che sottende l’esistenza a tempo del soggetto incarnato e che squarcia, per sempre, il cielo paradisiaco che sovrasta la jouissance del Moi.
Egli scrive nei Carnets de captivité:«Nella passività totale dell’abbandono, nel distacco nei riguardi di tutti i legami – sentirsi come tra le mani del Signore, avvertire la sua presenza. Nel bruciore della sofferenza distinguere la fiamma del bacio divino. Scoprire il misterioso capovolgimento della sofferenza suprema in felicità». Come dire: il dovere felice di amare l’altro diventa condizione stessa dell’ulteriore capovolgimento della sofferenza inutile in sofferenza non-inutile. Ma c’è anche chi, come André Neher, ha parlato dell’esilio della parola, individuando nel silenzio di Auschwitz l’avvenimento limite al punto da ergerlo a criterio ermeneutico:leggere la bibbia a partire da Auschwitz. Si pensi soltanto alla prova di Abramo, che si recò sul monte Moria per sacrificare il figlio Isacco (l’aqedat Jizchaq, è il racconto della legatura di Isacco) e la cui mano che impugnava un coltello tagliente venne fermata da Dio,prova che è stata stravolta dalle migliaia di aqedot rovesciate. Così Giobbe che, dopo aver protestato con Dio, venne reintegrato nei suoi beni – benché i figli persi lo furono per sempre –, mentre i Giobbe di Auschwitz non sopravvissero alla prova. Le letture sopra accennate rappresentano, soltanto, un tentativo di dare conto della complessità dell’argomento, della maniera plurivoca di declinarne il paradigma, di cercare di capire. Molte altre ne sono state elaborate e molte ne saranno ancora.
Lo sforzo del ciclo che qui presentiamo è proprio quello di mostrare punti di vista autorevoli su che cosa è stato, capaci di orientare la coscienza del singolo su un evento che non può e non potrà mai passare sotto silenzio. Questo, nella convinzione che il forse e il davar acher (altra interpretazione) costituiscano delle costanti nella storia ebraica.
Giovedì 12 gennaio 2012
Gabriele Nissim
La memoria del bene
Teatro dell’Oratorio Pio XI, via A. Gatti, 28 - Castrezzato (Bs)
«Non ci credo, io nel bene. Io credo nella bontà».
V. Grossman, Vita e destino
Lunedì 23 gennaio 2012
David Bidussa
L’era della postmemoria
Chiesa S. Chiara, 5Piazza S.Chiara - Villachiara (Bs)
«Mendel di Kotz diceva: il potere dell’oblio è tale da poter condurre a dimenticare il versetto: “Guardati dal dimenticare il Signore” (Dt 6, 12)».
V. Malka, Piccole scintille di saggezza ebraica
Giovedì 26 gennaio 2012
Rav Giuseppe Laras
Il comandamento della memoria
Teatro Comunale, via V. Emanuele II - Travagliato (Bs)
«Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario».
P. Levi, Se questo è un uomo
Giovedì 2 febbraio 2012
Amos Luzzatto
Vanità della memoria
Centro culturale Aldo Moro, via Palestro, 17 - Orzinuovi (Bs)
«Molta sapienza, molto affanno chi accresce il sapere, aumenta il dolore».
Qo 1, 18
Giovedì 9 febbraio 2012
Massimo Giuliani
Olocausto
Teatro Gonzaga, via Castello - Ostiano (Cr)
«La sproporzione tra la sofferenza e ogni teodicea apparve ad Auschwitz con una chiarezza che cava gli occhi».
E. Levinas, La sofferenza inutile
Giovedì 16 febbraio 2012
Paolo De Benedetti
La memoria di Dio
Sala Polifunzionale della Scuola dell’infanzia, via Garibaldi, 61 - Corzano (Bs)
«Allora tu invocherai e il Signore risponderà, tu griderai e lui dirà: Eccomi».
Is 58, 9
Venerdì 24 febbraio 2012
Salvatore Natoli
La memoria di Giobbe
Auditorium San Barnaba, c.so Magenta, 44/A - Brescia
«Ecco qui la mia firma! L’Onnipotente mi risponda».
Gb 31, 35