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Lunedì, 30 Gennaio 2012 01:00

I «Detti dei Padri» che ci parlano della sapienza quotidiana

Coglie nel segno Gabriella Caramore allorché scrive che, nei «Detti dei Padri» (Morcelliana, pp. 85, 10), «Paolo De Benedetti ci ha restituito senza volerlo un bel ritratto di sé come di colui che scava con le "mani nel pensiero"».

In questo dialogo sui «Pirqè Avot», collezione di massime sapienziali e morali raccolte nella «Mishnà» (il nucleo di compilazione che ha dato origine al Talmud), i cui autori (i padri) sono vissuti tra l'epoca di Esdra (IV sec. a. C.) e il II sec. d. C., De Benedetti passa in rassegna i detti più significativi di questo trattato. Il movimento che attraverso il testo intero trova il suo perno nella «catena della ricezione», che dal Sinai passò per Mosè, Giosuè, gli anziani, i profeti fino agli uomini della Grande assemblea. Espressione questa che vuole significare come la trasmissione della tradizione debba compiersi, di generazione in generazione, arrivando fino ai nostri giorni.

L'impressione che si matura accostando questo volume è che sia De Benedetti stesso a dare forma concreta a ciò che si chiama la «Torà che è sulla bocca», aiutando anche il lettore non ebreo ad avvicinarsi a sentenze degne di applicarsi al quotidiano, ma non per questo, a volte, contrastanti tra loro o apparentemente criptiche. Si pensi soltanto al ruolo che riveste la parola nel mondo ebraico: essa non è flatus vocis, ma realtà che produce effetti. Come Gesù raccomandava di essere parchi di parole nelle preghiere, così Shammaj, ad esempio, ammoniva: «Fai della tua Torà un'occupazione fissa. Parla poco e fa' molto. Accogli ogni uomo con volto gioviale». Come dire: non è l'esegesi la cosa più importante, ma la prassi. Se la sapienza «è un particolare modo di rapportarsi a Dio con l'ascolto», essa scaturisce proprio dalla pratica stessa della discussione, ma non dalla messa in dubbio della «morale», ovvero dei 613 precetti, di cui non deve interessare tanto l'analisi contenutistica, bensì la provenienza divina. Ciascun precetto, in quanto legame di fede, va eseguito con lo stesso scrupolo, «perché è un recipiente concreto della gloria di Dio».

Non a caso una sentenza recita: «Su tre cose il mondo sta: sulla Torà, sul culto, sulla misericordia», dove per Torà si intende una discesa di Dio, per culto, un'ascesa a Dio e per misericordia, il rapporto tra gli uomini. Un ritmo ternario che tende a ripetersi, quasi ad indicare che solo la tensione fra le tre componenti può condurre all'armonia. Non solo, in questo detto sembra essere contenuta la quint'essenza dell'ebraismo com'è esplicata in Es 24,7 o, se si vuole, nella Stella Redenzione di Rosenzweig che fa leva sul triangolo: Dio-uomo-mondo.

Si capisce allora perché la ricompensa di un precetto sia un altro precetto o perché non spetti al singolo portare a termine il lavoro, anche se non ha il diritto di sottrarsene. La salvezza, chiarisce De Benedetti, la si deve cercare in ogni istante della propria vita, incalzati dall'ortoprassi, ma liberi nella disputa. Tra le coppie di maestri più famose, v'è quella di Hillel e Shammaj. Quando morirono, essi divergevano su 300 punti. I discepoli, disorientati, udirono all'improvviso una voce dal cielo: «Queste e quelle sono parole del Dio vivente». È la logica dei «doppi pensieri» evocata dall'autore, ricordando la lettura de «L'idiota» di Dostoevskij di Italo Mancini.

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