Se si guarda alla nuda sequenza storica attraverso la quale si è propagata l’infezione antisemita non si può che rimanere attoniti: dall’accusa di deicidio ai pogrom, dalla creazione dei ghetti al perpetrarsi del patrimonio classico di pregiudizio (ebreo errante, fariseo, usuraio) per giungere alle tematiche tipiche del filone dei Protocolli dei Savi di Sion e degli omicidi rituali e quindi all’orrore della Shoah. E non è certo confortante apprendere dai mezzi di stampa e dai media in generale come ancora oggi, ad oltre 70 anni dalla liberazione e da un genocidio che ha inghiottito nella sua spirale oltre sei milioni di vite umane, non solo vi sia ancora chi contesta un dato oggettivo compiacendosi di rientrare nelle fila dei negazionisti, ma siano in costante aumento casi di antisemitismo, spesso celati da un convinto antisionismo: black list diffuse in rete, scritte antisemite che si moltiplicano, rigurgiti di vecchi nostalgici che, addirittura, propongono di costituire il partito fascista. Per non dire di quel costante terrorismo psicologico cui sono sottoposti gli ebrei avendo piena consapevolezza di essere sempre e comunque nel mirino. Di qui il timore di cadere vittima di un attentato come, ad esempio, è accaduto nel 2012 davanti a una scuola ebraica a Tolosa, in Francia. Quattro persone (tre delle quali bambini) sono morte nell’attentato: un professore e i suoi 2 figli. L’attentatore ha ripreso con la telecamera la strage. Poi è fuggito in scooter. Per non dire dell’annus horribilis della Francia e dell’intera Europa: il 2015 iniziato il 7 gennaio con la carneficina della redazione di «Charlie Hebdo» e l’incursione non certo casuale nel supermercato kosher nei sobborghi di Parigi, per proseguire il 13 novembre 2015 con il sincronismo – che è già sinonimo di guerra – di una serie di attacchi in luoghi diversi della capitale francese portati a termine dagli uomini del Daesh e un bilancio pesantissimo: 135 vittime innocenti, tra le quali molti giovani che assistevano al concerto che si stava tenendo nel teatro «Bataclan», locale peraltro legato alla comunità ebraica francese. Poi Il 17 novembre dello stesso anno un altro insegnante a Marsiglia è stato accoltellato per strada da terroristi che gli hanno mostrato simboli dell’Isis. Si calcola che nel 2015 circa 9.000 ebrei hanno lasciatola Francia: un triste record che ha battuto quello del 2014, quando 6.500 ebrei se n’erano andati (17 mila in tutta l’Europa). Il 2016 si apre con un ennesimo agguato ad un insegnante ebreo di Marsiglia, cui ne seguiranno altri: si pensi solo all’assalitore sedicenne che ha aggredito nello scorso agosto un ebreo a Strasburgo e ai numerosi attentati in Israele – da Tel Aviv a Gerusalemme – festeggiati su twitter e sui social con messaggi deliranti e video in cui si minaccia di colpire Israele nel prossimo futuro e di conquistare Roma.
Ora, dinanzi ad un simile scenario, cosa si può fare se non interrogarsi ancora? Crediamo che le parole pronunciate da Rav Giuseppe Laras – una delle figure più eminenti del mondo ebraico internazionale, per oltre 25 anni rabbino-capo di Milano e costruttore instancabile del dialogo-ebraico cristiano con l’indimenticabile cardinale Carlo Maria Martini e il compianto Paolo De Benedetti – possano e debbano costituire un monito capace di tradire l’urgenza del nostro presente.
In una memorabile lezione all’interno del nostro Festival, il rabbino affermò:«Ricordare vuol dire attualizzare il passato, e lo si può fare con diversi intenti. Si può cercare di attualizzare il passato per odiare, ma si può anche attualizzare il passato per costruire: credo sia questo il senso della memoria. In caso contrario, sarebbe ben poca cosa: non sarebbe gratificante, non ci lascerebbe niente, ci distruggerebbe ulteriormente. […]che cosa dobbiamo fare perché la memoria non si consumi – e tutto tende a consumarsi! – e possa essere trasmessa alle generazioni future?
Certamente bisognerà continuare a parlare di quello che è successo, tuttavia l'obiettivo fondamentale non dovrà essere unicamente quello di consegnare ai posteri questa memoria, bensì di trasmettere un atteggiamento di netto rifiuto della violenza e dell'intolleranza talché esso possa diventare parte integrante del patrimonio etico-culturale delle donne e degli uomini di domani.
Questo è l'obiettivo della conservazione della memoria, una memoria dinamica che costruisca e non si pianga addosso.
Ricordare per ricostruire: questo obiettivo è molto ambizioso e fondamentale[…]Mi sovviene un verso di Qohelet: “c’è un tempo per tacere e un tempo per parlare” (III,7).
Noi siamo ancora nel tempo della parola che, in quanto tale, è il tempo della responsabilità e dell’impegno. Ognuno di noi agisca come se ignorasse che un giorno, forse, potrà sopravvenire il tempo del silenzio».
Le riflessioni di Rav Laras ci permettono di richiamare quelle che fanno seguito al titolo apparentemente sibillino del testo di Levinas cui sopra ci siamo riferiti. Anche il filosofo sosta sulla nozione di temporalità la quale «più che corrente di contenuti di coscienza, è l’essere rivolto dello Stesso verso l’Altro». Far emergere il non-detto del tempo comune significa esplicarne la sua torsione diacronica, che è già un farsi carico dell’Altro, «una responsabilità incedibile la cui urgenza mi identifica come insostituibile e unico». Tempo e parola, dunque, paiono costituire, se così ci è consentito esprimerci, delle fondamenta irrinunciabili per praticare una piena transitività della memoria. Eppure, mentre scriviamo queste righe, ci accorgiamo che la formula iniziale: «per concludere, interrogarci ancora» ci inquieta di nuovo, ci provoca, ci scuote. La recente scomparsa dell’insigne biblista e teologo Paolo De Benedetti – cui è dedicata questa edizione di Fare memoria – ci fa toccare con mano l’urgenza di aggiungere al binomio tempo-parola, un terzo elemento: narrare il nome. Una sorta di testamento spirituale che PDB volle lasciarci in occasione della sua ultima conferenza tenutasi nell’ambito della nostra manifestazione. Il titolo dell’intervento scrupolosamente meditato dall’Autore recitava: Memoria di Dio, specificando subito come il genitivo lo si dovesse intendere sia in senso oggettivo che in senso soggettivo: la memoria dell’uomo verso Dio e di Dio nei confronti dell’uomo. Non a caso, quella sera, PDB volle insistere con tutto se stesso sulla necessità dello zakhor (ricordare), la cui radice z.k. r. compare 169 volte nell’Antico Testamento. Si soffermò a lungo nel mostrare come, di contro al concetto greco-latino di historia – che ha a che fare con l’indagare – la storia in ebraico si esprime come una sequenza di generazioni: toledot, rinviando alla fecondità intrinseca che è contenuta nel ricordare il nome. E poi aggiunse: «Dimenticare il nome è peggio che la morte. Ecco perché, nella nostra tradizione, ricordare il nome dei defunti è fondamentale, poiché nel nome sta l’anima». Un altro Maestro ci ha lasciato. A noi il compito di renderne fruttuoso l’insegnamento.
Come dicono i Padri: «Se David re d’Israele, che imparò da Achitofel, non più di due cose, lo ha chiamato suo maestro, suo amico, e confidente, quanto più chi impara da un altro anche solo un capitolo o una halakhà o un versetto o una parola o perfino una lettera, deve rendergli onore» (PA VI,3).