È stato presentato alla Fiera del Libro di Francoforte ed è disponibile nelle librerie francesi per i tipi Grasset (Parigi) il primo tomo delle Oeuvres complètes di Emmanuel Lévinas. Un progetto editoriale che è composto da cinque volumi: Inédits 1 & 2, Philosophie 1 & 2 e infine Critica Letteraria– Lezioni Talmudiche. L’attesissimo primo corpus di inediti è intitolato Carnets de captivité (pp. 512, 25 euro). Per l’occasione abbiamo incontrato uno dei maggiori filosofi viventi Jean–Luc Nancy, definito da Jacques Derrida «il più grande pensatore sul tatto di tutti i tempi». Già docente di Filosofia presso le università di Strasburgo, San Diego e Berkeley, Nancy è dal 2002 professore emerito di Filosofia presso l’Università Marc Bloch di Strasburgo. Tra le figure di maggior spicco nel panorama filosofico internazionale, ha riformulato temi cruciali della tradizione filosofica post–heideggeriana. In una rifles sione vertente in particolare sullo statuto della corporeità e delle sue rappresentazioni, ne ha dimostrato anche la dimensione intersoggettiva e comunitaria. Tra i suoi libri più importanti tradotti in italiano ricordiamo: La comunità impersonale Cronocopio, Napoli 1992; Il mito nazi, Il melangolo, 1992; Il senso del mondo, Lanfranchi, Milano 1997; L’intruso, Cronocopio, Napoli 2000; L’esperienza della libertà, Einuadi, Torino 2000; Essere singolare plurale, Einaudi, Torino 2001; La comunità inoperosa, Cronocopio, Napoli 2003; La creazione del mondo o la mondializzazione, Einaudi, Torino 2003; Corpus, Cronocopio, Napoli 2004; Noli me tangere. Saggio sul levarsi del corpo, Bollati Boringhieri, Torino 2005; L’imperativo categorico, Besa, Nardò 2005; Sull’agire. Heidegger e l’etica, Cronocopio, Napoli 2005; Il ventriloquio. Sofista e filosofo, Besa, Nardò 2006; In cielo e sulla terra. Piccola conferenza su Dio, Luca Sassella Editore, Roma 2006; Le Muse, Diabasis, Reggio Emilia 2006; Cronache filosofiche, Nottetempo, Roma 2006; La nascita dei seni, Cortina Raffaello, Milano 2007; Il giusto e l’ingiusto, Feltrinelli, Milano 2007; Tre saggi sull’immagine, Cronocopio, Napoli 2007; Ego sum, Bompiani, Milano 2008; Sull’amore, Bollati Boringhieri, Torino 2009; Indizi sul corpo, Ananke, Torino 2009; Verità della democrazia Cronocopio, Napoli 2009; M’ama non m’ama, Utet, Torino 2009.
Prof. Nancy, come si articola questo libro che esce a 14 anni dalla morte di Lévinas?
«Questo libro si compone di “Quaderni” scritti da Lévinas durante la guerra, soprattutto durante la prigionia, e da un insieme di note e testi brevi del periodo immediatamente successivo. È un libro che contiene insieme tutto ciò che è legato alla guerra e quel che in quel periodo costituisce il cantiere filosofico di Lévinas ».
In quale senso già nel diario di guerra si possono individuare in nuce i grandi temi della filosofia del pensatore ebreo lituano?
«Nei Quaderni e nelle Note che seguono si trova in modo molto evidente la forma aurorale dei più grandi temi: l’insufficienza dell’ “essere” e la necessità dell’ “altro” ; l’affermazione che la filosofia resta monologica quando si deve instaurare un dia–logo vero; la messa in questione della sufficienza del “sé”; l’affermazione cardinale dell’infinito; si vede parimenti l’importanza dell’ “eros” – parola che era anche il titolo di un progetto di romanzo che Lévinas tentò di scrivere in quel periodo. Uno degli aspetti più sorprendenti dei Quaderni è, in effetti, un interesse molto grande per la letteratura – con numerosi riferimenti – e il desiderio di scrivere un romanzo con la messa in scena di temi filosofici».
Lei che è un grande fenomenologo, in quali termini ritiene che si possa parlare di una filosofia del corpo in Lévinas? Quali sono le identità e le differenze tra la Sua fenomenologia del corpo e quella che si può intravedere in Lévinas?
«Non mi considero come proveniente dalla tradizione fenomenologica, se non attraverso le trasformazione considerevoli che il termine ha subito con Heidegger, Lévinas e Derrida – dopo loro non riguarda più la grande questione del senso come la pensavano Husserl e Merleau–Ponty. Lévinas stesso, poiché è di lui che noi parliamo, è un fenomenologo e fino a che punto? Una domanda che andrebbe analizzata con maggior minuzia per avere una risposta adeguata. Tuttavia, se si vuol intendere con “fenomenologia” una attitudine secondo la quale il soggetto lascia che i fenomeni si mostrino, lascia che il mondo si manifesti e trascenda verso la coscienza che si volge e tende verso esso, allora direi propriamente che questo “faccia a faccia” del soggetto e del mondo, o della coscienza trascendentale e delle “cose stesse”, è ciò da cui Lévinas si è staccato e molto presto. Non un distacco nel senso che avrebbe ripudiato la disposizione profonda di Husserl; al contrario, ha riconosciuto una volontà di trovare o ritrovare il senso dell’esistenza nel mondo e ha ben compreso che non si trattava di una nuova teoria della conoscenza. Tuttavia, Lévinas s’è distaccato da quel che rimane di “intellettualistico” in Husserl (come egli diceva nei suoi primi lavori) ed è stato molto sensibile (oltre che a Bergson e a un senso della vita in qualche modo immanente) ad Heidegger, e quindi alla questione del senso dell’essere o del “sens d’être” come egli scrive in queste Note. Non poteva quindi che partire, necessariamente, dal soggetto in quanto corpo. Proprio come il Dasein heideggeriano è insieme corpo–spazio, apertura di un “luogo”. Tuttavia, qualche cosa connette questo corpo – quello di Heidegger o di Merleau– Ponty o, differentemente, di Sartre – alla posizione husserliana di una istanza trascendentale. Così come la coscienza di Husserl non è psicologica , o “pura” o trascendentale nel senso di condizione di possibilità di … (dell’apparire di un mondo), parimenti mi arrischierei a dire che in Lévinas incontriamo un corpo “puro” o trascendentale. Vale a dire una sensibilità. Questa sensibilità “est jouissance” (godimento). Come egli sostiene, non è né conoscenza né esperienza. Ma in un secondo tempo, questa sensibilità si mostra verosimilmente come la più sensibile poiché attraverso il godimento (ma si dovrebbe discutere a lungo su questo punto) si fa sensibile all’“Altro”, precisamente a questo “visage” (volto) non visibile di cui non è questione di godere, ma d’essere responsabile. A questo punto – ben intesi, decisivo – il tema del corpo s’allontana. Non è che Lévinas abbia un pensiero disincarnato, al contrario; io lo credo un pensiero molto incarnato, molto carnale e concreto. Ma la sensibilità per lui non deve farsi intrappolare dal godimento: deve essere sensibilità all’insensibile. Da qui, il suo interesse non va al corpo nel modo in cui io ho tentato di sviluppare : nella sua esteriorità, nella esposizione di quella “messa fuori di sé” che lo costituisce. Non avrebbe alcun senso voler comparare i due approcci : non si situano sullo stesso piano. Io non rifiuto niente, forse, delle affermazioni di Lévinas, ma sposterei (ridefinirei) il senso di certe parole : “godimento”, in particolare, non significa per me appropriazione o completamento, ma eccesso e infinità. Che il desiderio possa andare (spingersi) all’infinito, Lévinas lo pensava all’inizio, per poi allontanarsi progressivamente da questo motivo – e tuttavia penso che egli vi sia rimasto attaccato più di quanto non appaia. Ma lo si dovrebbe mostrare attraverso una lettura paziente dei suoi testi. Per prolungare ulteriormente il confronto, potrei dire che per me gli altri, al plurale, dovrebbero essere sostituiti all’Altro. Sarebbe un’altra ridefinizione della parola e del concetto : ma non si è certi della sua assenza in Lévinas, se lo si leggesse attentamente. Così il «fianco a fianco» vale quanto il «faccia a faccia». Ma soprattutto – e qui siamo veramente su due registri diversi – per me il corpo è l’estensione dell’anima, è il suo esser–fuori–di–sé e la sua es–posizione. Si parla di “corpo” proprio per accentuare questa estensione. Questa estra–posizione dell’”essente” e la giustap–posizione di tutti gli essenti tra loro. L’alterità dell’altro è anche l’interminabile pluralità dell’alterità e di alterazioni che ciascuno provoca negli altri. Per questo, mi sono spesso interessato al motivo dell’ “essere in comune”. Per me, se volete, si tratta, per il momento, di ripensare il “comune”, categoria obliata e come, insieme, respinta e sublimata nel “comunismo”. Per Lévinas, la questione del comunismo è poco, o per niente, posta. Per lui la comunità è data e la questione è sapere qual è il senso dell’alterità in quello essere–in–comune che tutte le volte è il nostro».
Come dire: ove per Nancy si parla di essere abbandonato in una esistenza che non è più struttura, ma fatto, un’ecceità: un pensiero dell’estensione e dell’estraneità e insieme un pensiero tragico senza trascendenza – per un verso la nostra identità singolare dispiegata nel con–essere viene a coincidere con l’alterazione di sé che si dà nel gesto d’amore, per l’altro nella ostensione del corpo malato soffro, dunque sono – per Lévinas si schiude un diversa compresione dell’essere tutta giocata sull’evento dell’ipostasi. Nell’atto di inserzione nell’esistenza, io mi stacco dal brusio anonimo dell’ il y a e, in quanto sum – essere corporeo di carne e di sangue –, sono assegnato a–me–stesso, libero e quindi sempre esposto alla tentazione di non prendere sul serio il tempo, o, il che è lo stesso, l’altro. Quale ruolo, dunque, gioca nel dibattito contemporaneo quella responsabilità assunta fino alla sostituzione, allo strapparsi il tozzo di pane dalla propria bocca, al farsi ostaggio dell’Altro cui Lévinas continuamente richiama?
«La dimensione molto forte, anche provocatrice – grazie a questa parola ostaggio – introdotta da Lévinas ha aperto una dis–simetria essenziale: non è più possibile pensare né un “soggetto” e dopo il “riconoscimento” di un altro, né più soggetti, ma si di deve pensare un’incommensurabilità di principio tra l’ “io” e l’ “altro” – gli altri, quindi, come dico io, ma il rischio che si corre sulla scia di questo pensiero, presso i “lévinasiani” (come sempre accade quando si dà una specie di “dottrina”), è un distorcimento che considera innanzi tutto i valori oblativi, sacrificali, generosi e che conduce inavvertitamente a un moralismo dell’altruismo. Ora, Lévinas è molto più profondo, e lo è malgrado lui stesso o malgrado la lettera dei suoi testi. Non si tratta di far passare l’altro davanti a me né di offrimi al suo posto: si tratta infatti di comprendere che la vera costituzione di un “io” passa per qui, per questa alterazione: addirittura una alienazione in, attraverso e per gli altri. Si potrebbe dire – questo lo farebbe protestare! – che è un radicalizzazione di Hegel : un “per sé” si costituisce solo fuoriuscendo dal suo “in sé” ed essendo “per–e– attraverso–l’altro”. Quel che dovrebbe essere preponderante, nel pensiero contemporaneo, non è di ripetere una morale altruista, generosa, etc. Si tratta di comprendere che l’ “io” – o la “persona”, perfino l’“individuo” –, la singolarità di una esistenza e della sua possibilità di presentar–“si” e di dire “io” non si genera che attraverso il fuori interminabile delle alterità. Non si tratta, ad esempio, di raccomandare l’accoglienza degli stranieri : si deve pensare che l’ “estraneità” è dappertutto, che la mondializzazione porta a una potenza molto elevata questo mescolamento permanente e polimorfo dell’ “estraneo” e del “proprio” – e che noi andiamo verso un tempo in cui queste nozioni stesse verranno ridefinite, trasformate. Non è “moralmente” che noi abbiamo bisogno degli altri : è ontologicamente ».
Quali ricordi conserva di Lévinas, quali incontri o conversazioni Le sono più cari?
«Non vi sono stati molti incontri, ma sono stati ogni volta molto vivaci, molto calorosi. Non ricordo tutto, ma non posso dimenticarmi del suo bel umore amichevole, tranquillo, e sorridente nel condividere un pasto quando temevo di non ricordare qualche osservanza della kasherut (cosa che non dovrebbe certo essere rivelata!). Mi ricordo anche di una conversazione durante un viaggio in macchina (con sua moglie) ove parlammo di Derrida e della rimarchevole forza dei suoi primi scritti. O ancora, il ricordo molto divertente di un colloquio sulla psicoanalisi ove egli aveva parlato del sogno per dire che l’approccio freudiano gli restava estraneo per evocare altri modi di accostarsi al sogno, come nella Bibbia. In seguito, in un corridoio, mi rivelò: «Veramente, il sogno mi tocca molto poco». E più tardi, nello stesso colloquio, Philippe Lacoue–Labarthe ed io presentammo un testo che titolammo: Il popolo ebreo non sogna..».
Articolo pubblicato sul numero 99 di Città&dintorni