«Portare il saluto», come recita il titolo dell’agile volume firmato da Massimo Giuliani e Paolo De Benedetti (Morcelliana, Brescia, 82 pagine, 10 euro), contiene in sé una sfida molto alta: la possibilità di aprire o chiudere le relazioni. In una serrata fenomenologia su questo gesto che, erroneamente, parrebbe un mero automatismo, Giuliani porta a datità i modi attraverso i quali il saluto si porge, a partire da un’etimologia del termine che va dal latino «salus», da cui salute-salvezza, al greco «soterìa»,che contiene l’idea di salvazione da ogni male, fino ai nordici «Heil», «Hails» e «heilag», che rimandano allo starbene, e dai semitici «salaam » e «shalom», che indicano integrità, armonia, pienezza di bene e di beni.
Salute e benessere sono i contenuti del messaggio che veicola il saluto e che lo assurge a rito propiziatorio, pur nella diversità delle modalità attraverso le quali universalmente si esplica. In apertura di tutte le liturgie cristiane il «pax vobiscum» si caratterizza come benedizione/augurio, che è la traduzione latina dello «shalom» ebraico: quell’augurare pace e bene, un’endiadi poi ripresa da San Francesco. Di qui lo «shalom» come «berakà » (benedizione).Un precetto minore non perché poco importante, ma perché meno conosciuto: salutare per primi, come insegna Rabbi Jochanan, di cui si racconta che nessuno al mondo lo avesse mai anticipato nel saluto, neppure i gentili.
Ecco perché il saluto si configura come ciò che inaugura una relazione - come quello che si rinnova ogni mattina al giorno che viene, in una sorta di memoriale della creazione -, ma anche come ciò che colma una distanza quando si portano i saluti di un terzo. Il saluto - e lo si può toccare quasi con mano quando esso perde la sua formalità e si fa porta per entrare nella salvazione altrui, fino al «syn-pathos », ovvero al soffire-insieme - si configura, in ultima analisi, come riconoscere, in ogni istante, il debito verso l’altro. Anche quando si tratta del penultimo saluto,persino nel congedo da chi non può più risponderti. In quella circostanza, si fa l’esperienza della radicalità dell’altro, del suo essere traccia dell’Illeità, che si traduce nella formula estrema dell’«ad- Dieu» levinasiano.
Ma l’uomo, in quanto libero, è sempre tentato: ecco perché il contrario del saluto è il toglierlo, degradando il «tu» a-me-relato ad un «esso» che si fa cosa. Il libro edito da Morcelliana si conclude con una mirabile analisi di Paolo De Benedetti sulle radici bibliche e rabbiniche del termine e con una sorta di prontuario sul buon uso dello «shalom»: se esso viene da Dio e l’uomo può fare solo delle «paci», non è meno vero che Dio ha bisogno di essere pacificato dai pacifici. Egli, essendosi compromesso una volta per tutte creando l’uomo, chiama alla co-redenzione colui che plasmò a sua immagine e somiglianza. Proprio per questo, se l’uomo non è capace di fare «shalom»,può e dev’essere imitatore di Dio che fa «shalom».