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Martedì, 12 Luglio 2011 16:01

Lezione di Natoli sulla felicità: «Un dono reciproco»

La felicità si conserva anche nei disagi di un temporale estivo. L’ha spiegato l’altra sera, con umorismo e spirito d’adattamento, il filosofo Salvatore Natoli al pubblico che si rifugiava sotto il porticato dell’azienda agricola Le Vittorie di Villachiara per dargli modo di proseguire la sua conferenza nonostante la pioggia.

L’incontro faceva parte della rassegna «Filosofi lungo l’Oglio», il festival diretto da Francesca Nodari e del quale Natoli, docente di Filosofia Teoretica all’Università degli Studi Milano Bicocca, riveste dalle origini il ruolo di nume tutelare. Più che mai quest’anno, visto che alla felicità - il tema della sesta edizione - lo stesso Natoli ha dedicato un libro, «La felicità. Saggio di teoria degli affetti» (Feltrinelli, 1994).

In apertura, l’assessore alla Cultura di Villachiara, Maddalena Roncali, ha invitato a «non aver paura di volare alto». Anche nella ricerca della felicità che, Natoli l’ha ricordato, è indicata da Aristotele come il fine della vita umana. Ma si tratta di un sentimento odi uno stato più stabile? «In genere la consideriamo un sentimento, la cui durata appare troppo breve. Non siamo noi a raggiungerla, è lei ad afferrarci: prende in modo inatteso, ha carattere di gratuità».

E resta nella memoria alla stregua di una «pienezza che precede la perdita»: attimi in cui genera la «sensazione della nostra illimitata espansione, fa sperimentare una fecondità». È la gioia degli amanti, nella quale «si perde il senso del tempo, e al pathos della vicinanza si accompagna lo struggimento del non sentirsi all’altezza della condizione a cui si è pervenuti». L’acme infatti presuppone la caduta: la felicità scompare e noi ci impegniamo a riconquistarla.

Questo sentimento corrisponde a ciò che i Greci chiamavano «eutychìa»: il «buon accadimento», la sorte benevola. Vi era però anche un’altra espressione, «eudaimonìa», che significava «un demone che opera a tuo vantaggio». «Socrate afferma che il demone è dentro di noi: “eudaimonia” vuol dire che l’uomo può produrre da sé la propria felicità. La “tyke” la fa dipendere dalle occasioni esterne; col “daimon” l’uomo stesso crea le giuste relazioni perché la felicità appaia, lavora sul mondo per renderlo favorevole».

È in tale orientamento che la felicità può mutarsi in una condizione stabile. «L’uomo può produrre il suo bene trovando i punti di congiunzione tra sé e gli altri, attuando strategie di ricomposizione che aggirano le difficoltà». È la pratica feconda della virtù, l’«aretè» greca, «la capacità di realizzare se stessi stabilendo raccordi riusciti tra sé e il mondo. Una capacità che migliora praticandola, e diventa la buona abitudine di trarre da sé il bene nelle diverse circostanze della vita». Anche nei dolore, che costituisce un’occasione di sfida. «È necessario osservarsi e sperimentarsi – ammonisce Natoli – per scegliere i percorsi di vita che permettono la nostra espansione. La felicità è qualcosa che l’uomo deve meritarsi, comprendendo che non risiede nelle cose ma nelle relazioni: bisogna stare nel mondo, nel rischio, valorizzando noi stessi e gli oggetti su cui operiamo. Più di tutto è da coltivare la relazione con gli altri esseri umani: «L’incontro è possibile solo valorizzando la profondità dell’altro, che è inesauribile e non dominabile. La felicità nasce allora solo dalla capacità di reciproca donazione. Si ottiene con la gratuità, non più quella del caso ma della reciprocità che rende felici insieme nella gioia e nel dolore».

Informazioni aggiuntive

  • autore: Nicola Rocchi
  • giornale: Giornale di Brescia

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