Tutti gli uomini, ha esordito Casper, «comprendono immediatamente di voler essere felici». E però difficile dire cosa si intenda per felicità. Per arrivare «a ciò che realmente cerchiamo», bisogna anzitutto riformulare la questione: non «cosa è la felicità?», ma piuttosto «chi è felice?». La felicità infatti non è una qualità che possediamo, ma «si pone originariamente solo nella domanda “chi siamo?”». Nella domanda sulla felicità, spiega il filosofo, entra in gioco «il senso del nostro esserci puro e semplice». Un esserci, quello umano, che è anzitutto determinato nel tempo, segnato dalla mortalità. E in secondo luogo è «rimesso a ciò che rispetto a noi è l’altro», in particolare alla relazione con gli altri esseri umani: «Solo se questo rapporto all’altro uomo in quanto lui stesso riuscisse, potremmo essere in unità con noi stessi in senso esaustivo; e questo significherebbe essere felici in un senso pienamente compiuto». La felicità insomma non è un’idealità definibile a priori: «accade sempre di nuovo nell’incontro con l’altro dame», presentandosi nel tempo inteso «come storia che accade diacronicamente in modo ogni volta libero». Essa si dà «nell’accadimento dell’incontro», non possiamo produrla ma la riceviamo come un «dono libero». un dono il poter «incontrare un altro uomo in quanto lui stesso e poter parlare con lui sulle questioni che ci muovono non soltanto superficialmente, ma nella profondità di noi stessi». Felicità «è avere amici, avere buoni rapporti con gli altri uomini e vivere nella condivisione di una comunità giusta».
Di fronte a tale dono, la nostra risposta può essere soltanto «quella del ringraziare»: «Nel vero “sono felice”, il ricevere passivo del dono e l’attivo realizzarsi nella gratitudine coincidono». Solo attivando questa «gratitudine responsiva» il dono «diviene davvero il dono che mi dona a me stesso e mi soddisfa». Il linguaggio che manifesta «questo senso di compimento della gratitudine del mio intero esserci» prende la forma della lode: «Laudato si’» ripete il Cantico delle Creature, esprimendo una felicità feconda e aperta al futuro.
Ma chi può essere davvero felice sapendo che tale condizione è passeggera e vedendo le sofferenze che patiscono gli uomini? Si deve comprendere, conclude Casper, che ogni attimo concreto di felicità contiene la speranza di essa come «pienezza della realtà e del proprio esserci», «gratitudine per il fatto “che sono” e “sono nell’incontro con l’altro dame”». possibile nutrire fede in questo compimento – nel «desiderio di una salvezza che abbraccia ogni storia e quindi anche il mio esserci mortale» – anche in situazioni dolorose: sempre possiamo «rispondere amando al dono di trovarci in rapporto a noi stessi, agli altri uomini e alle cose».