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Lunedì, 19 Aprile 2010 02:04

Il destino tra caso e responsabilità

Salvatore Natoli ha presentato il volume con i testi di «Filosofi lungo l’Oglio 2009»

Il terremoto è frutto di fatalità o destino? La devastazione di Haiti è stata evocata più volte durante l’incontro che l’altra sera, alla Rocca San Giorgio di Orzinuovi, ha riproposto i contenuti dell’edizione 2009 di «Filosofi lungo l’Oglio» e introdotto agli incontri della prossima stagione. L’occasione era la presentazione del libro «Destino»: edito dalla Compagnia della Stampa, il volume raccoglie i testi degli interventi dedicati a questo tema che cinque autorevoli relatori (Vito Mancuso, Maria Rita Parsi, Salvatore Natoli, Sergio Givone, Aldo Magris) hanno tenuto l’estate scorsa in diverse località nell’ambito di «Odissea, il Festival della Valle dell’Oglio». Le conferenze - realizzate grazie al contributo della Banca di Credito Cooperativo di Pompiano e Franciacorta - hanno avuto un ampio richiamo: la curatrice Francesca Nodari annuncia che quest’anno gli incontri aumenteranno da cinque a nove. E sarà «il corpo» il tema della quinta edizione. Come ha osservato Paola Cominotti, assessore alla Cultura del Comune di Orzinuovi, «la domanda sulla comprensione dell’essenza del destino è stata posta in ogni epoca, con diverse risposte». Ad alcune di esse ha rivolto un sintetico sguardo Salvatore Natoli, docente di Filosofia teoretica all’Università di Milano Bicocca, rispondendo alledomandepostegli nel corso della serata da Ilario Bertoletti, direttore editoriale della Morcelliana. «L’altra faccia del destino - ha esordito Natoli - è il caso. Gli uomini chiamano destino il caso, per dare un senso a ciò che accade. L’uomo, in condizione di minorità rispetto agli eventi, per dominarli immagina che qualcosa li regoli». Nella Grecia arcaica, la dimensione del destino non è declinata al futuro: «È il peso del passato a condizionare il futuro. Siamo sempre predeterminati da ciò che è avvenuto prima». Un esempio classico è la vicenda di Edipo. «Quando Edipo chiede all’oracolo chi siano i suoi genitori, l’oracolo non gli risponde: dice invece che Edipo ucciderà il proprio padre. Perché Edipo accetta una risposta non pertinente? Perché non voleva davvero sapere di sé. Col proprio destino si può giocare, ma non si diventa padroni di esso cercando di sfuggirgli». «Il carattere per l’uomo è il proprio destino» sentenzia Eraclito.Eper gli eroi omerici, spiega nel libro AldoMagris, «il destino non è un meccanismo esterno che li schiaccia,una necessità irresistibile, bensì risiede nel loro intimo, è ciò che essi sono e hanno scelto di essere». Nella dimensione biblica, la figura dominante è la libertà. «Il Dio della Bibbia - dice Salvatore Natoli - è libero per definizione, e l’uomo non può conoscere il suo disegno. L’onnipotenza di Dio non deriva da una quantità scalare di potenza,madal fatto che essa è inafferrabile da parte dell’uomo. C’è però un luogo, l’Alleanza, nel quale la libertà illimitata di Dio e quella limitata dell’uomo si vincolano. Qui è l’elemento destinale: l’uomo costruisce il suo destino di salvezza se è fedele all’Alleanza ». Di tale legame, l’età moderna ritiene di non aver più bisogno: «L’uomo secolarizzato vede che può fare da sé le cose che un tempo chiedeva a Dio. L’uomo si naturalizza, si sente cioè parte della natura; mentre l’uomo cristiano era il culmine della natura, perché alleato a Dio. Per i moderni noi siamo un caso della natura: dobbiamo conoscere scientificamente i nostri vincoli per guidarli, per trasformare un destino patito in qualcosa di cui diventiamo autori». La tecnica e la politica «sono le due grandi armi della modernità». Ma nell’età contemporanea sembra riemergere una visione tragica del destino. Walter Benjamin - citato da Bertoletti - scrive che «il destino è il contesto colpevole del vivente»: ogni ente deve espiare la colpa dell’esser nato. Osserva Natoli: «Se per i Greci comprenderela propria condizione era ilmododi giocare con il destino, oggi l’elemento imponderabile è assai cresciuto: riguarda non solo gli accadimenti, ma anche le nostre possibilità». I terremoti, certo, fanno parte dell’imponderabile. «Ma a L’Aquila, ad Haiti, in che modo erano state costruite le case? Oggi potremmo teoricamente prevedere ciò che accadrà: così ci colpevolizziamo per quello che non abbiamo fatto». Riscopriamo qui la nostra «responsabilità per il destino», evocata nel libro dal contributo di Sergio Givone.Eanche la nostra finitezza: «Una condizione che bisogna saper accettare per vivere meglio il presente».

Giornale di Brescia - Nicola Rocchi - 20 gennaio 2010

Pubblicato in Comunicati Stampa
Lunedì, 19 Aprile 2010 01:19

DESTINO

«In verità si è soliti dire che un potere superiore può privarci della libertà di parlare o di scrivere, ma non di pensare. Ma quanto, e quanto correttamente penseremmo, se non pensassimo per così dire in comune con altri a cui comunichiamo i nostri pensieri, e che ci comunicano i loro?».

Immanuel Kant, Che cosa significa orientarsi nel pensiero?

CHE COS’È DESTINO?

Dopo le Stagioni della vita, La geografia delle passioni e Vizi e virtù, la IV edizione dei Filosofi lungo l’Oglio è ruotata attorno al tema che tocca l’esistenza di ognuno: il destino. Un concetto che chiama in causa una vasta gamma di snodi argomentativi che vanno dalla riflessione sulla tradizione al viaggio come metafora della vita, dove l’alternanza tra amore e dolore, tra bene e male – si pensi alle splendide pagine che Vasilij Grossman in Vita e destino dedica alla bontà – sembra tradire una dialettica spezzata nella quale l’uomo è coinvolto, nella sua ancestrale richiesta di felicità.

Quale ruolo gli spetta? Quale libertà può giocare? Il destino è stoicamente la causa necessaria di tutto o l’effetto congiunto della provvidenza e delle azioni umane? È, con Arthur Schopenhauer, l’azione della volontà di vivere o è, nietzschianamente, l’accettazione volontaria e cosciente della necessità cosmica che fa dire di sì alla vita? E ancora, fino a che punto si può parlare di determinismo in una società dove «il desiderio di essere Dio», per usare le parole di Jean-Paul Sartre, tende a far dimenticare al singolo i limiti della sua finitudine? Non solo, non v’è il rischio che un individualismo ormai imperante conduca il soggetto ad una dimenticanza pericolosa – oseremmo dire senza via d’uscita – quella di chi mi è prossimo, dell’altro in quanto Altro?

Che cos’è, dunque, destino? Come si declina questa voce nelle nostre esistenze? È un viaggio da dove verso dove? Quali inquietudini muove e quanto ha a che fare con l’al di qua che abitiamo e un oltre in cui, chi crede, spera? Quali conflitti scatena a partire dal nodo primordiale eros/thanathos? Come interpretarlo alla luce di una società sempre più globalizzata, crocevia di culture, usi, costumi, religioni diverse? Una società che annaspa, alla ricerca frenetica di punti di riferimento proprio in un tempo ove la parola nichilismo sembra segnarne il profilo e far constatare la pericolosa vicinanza ad uno strapiombo che, per dirla con Salvatore Natoli, si chiama crollo del mondo.

Alla filosofia, dunque, tocca oggi più che mai il compito di avanzare questi interrogativi, di sciogliere le ovvietà per chiarirle e procedere speditamente oltre la soglia delle facili consolazioni e delle frettolose spiegazioni. Occorre fermarsi a riflettere, praticando l’otium fecondo del pensiero, che è insieme piacere e fatica perché se è vero che la filosofia non dà risposte definitive – è un eterno cercare – è altrettanto certo che essa può indicarci nuovi, sorprendenti orizzonti di senso. Come dire: aiutarci a fare ordine in un mondo che abitiamo sempre più confusamente tra lacerazioni, incertezze, identità plurime, ove lo stesso confine tra reale e virtuale si fa labile e la relazione tra ciò che mi circonda (l’ambiente in cui vivo) e colui che mi sta di fronte (l’altro) si fa sempre più fragile. Di più, pericolosamente vulnerabile.

A partire da questi interrogativi, si snodano gli interventi che sostanziano il II numero di questa collana e costituiscono la trascrizione di quanto ciascuno dei nostri ospiti ha esposto nel corso della propria lectio magistralis. Una possibilità in più, dunque, per gli spettatori sensibili di Filosofi lungo l’Oglio per poter tornare su alcuni passi e riflettere, muovendo dalle feconde problematizzazioni che gli studiosi hanno messo in atto. Muovendo dalla relazione del teologo laico Vito Mancuso Mancuso – docente di Teologia moderna e contemporanea presso la Facoltà di Filosofia dell’Università Vita Salute San Raffaele di Milano – che ha affrontato il tema a partire dalle sue connessioni con il concetto di anima e dal duplice, centrale, interrogativo: «Chi siamo?» «Che fine facciamo?», per giungere a quella di Maria Rita Parsi – psicologa e scrittrice – che si è intrattenuta sul rapporto tra amore e destino invitandoci ad una presa in carico consapevole e decisa della propria esistenza che non può prescindere dal risveglio di quel «Pensiero bambino» che abita le nostre coscienze e che bussa alla porta del nostro cuore per consentirci una piena realizzazione di sé insieme agli altri. E ancora, le meditazioni di Aldo Magris – ordinario di Filosofia della religione all’Università di Trieste – e di Sergio Givone – ordinario di Estetica e pro-rettore per gli Affari internazionali all’ateneo di Firenze – che sono state richiamate vicendevolmente dai due relatori fissando l’attenzione l’uno, in particolare, sulla bidimensionalità della vita che ci consente di comprendere come: «il destino non è un semplice fatto o un gesto: è un intreccio, e in particolar modo quell’intreccio quanto mai enigmatico ed inquietante che sussiste fra la natura propria di ognuno e le circostanze alle quali, precisamente per via di tale sua natura, va incontro.

Come dirà il filosofo Eraclito (fr. 119 Diels), il “dèmone” (altro termine che talvolta in greco designa il fato) consiste nel “carattere” (êthos) degli uomini»; l’altro, su una terza dimensione che si gioca tra il fare umano e quella che possiamo chiamare la «mente di Zeus» o il fato, ossia il tragico. Tragico che si chiarisce man mano, con Kant, come una lettura ex post della libertà ovvero nel paradosso di una responsabilità per il destino. «Quel paradosso che Platone aveva espresso mirabilmente in quella forma, il mito di Er, il paradosso per cui gli eroi greci sapevano di essere responsabili delle loro azioni e se ne rendevano conto, anche se, le loro azioni venivano da una profondità e da una lontananza che loro stessi non potevano comprendere, paradosso che Kant traduceva scoprendo la libertà nel cuore stesso della necessità e cioè osservando che il mondo del meccanismo universale, dove tutto è regolato da causa ed effetto, è al tempo stesso il mondo che ci vede impegnati eticamente, e dunque mondo della libertà». Per concludere con Salvatore Natoli – ordinario di Filosofia teoretica all’Università Bicocca di Milano e padrino di Filosofi lungo l’Oglio sin dalla prima edizione. E, per di più, sempre a Villachiara.

Non possiamo esimerci dal richiamare alla memoria quella che è stata, a ragione, definita come una serata storica per questo piccolo borgo della Bassa bresciana che, dal 10 luglio 2009, si pregia di poter ospitare tra i suoi cittadini onorari, il filosofo dello «stare al mondo». Prima dell’inizio della relazione, il Sindaco di Villachiara, Elvio Bertoletti – che ringraziamo vivamente unitamente all’intera Amministrazione comunale per la sensibilità da sempre dimostrata nei confronti della promozione della cultura sul territorio e dei suoi mirabili depositari – ha consegnato al Prof. Natoli la pergamena di conferimento della cittadinanza onoraria, le cui motivazioni sono riportate in un’apposita appendice riservata all’evento. La riflessione di Natoli si è aperta proprio facendo riferimento a ciò che andava continuamente sostenendo Platone, ovvero al fatto che «facendo filosofia ci si scambiano doni», si diventa amici o, il che è o stesso, che mai come oggi «la filosofia fa cittadinanza». Fa incontrare gli estranei, li fa sostare sui medesimi interrogativi per ricordare loro che senza quel legame di comunità umana cui, come ha indicato Natoli, faceva riferimento La ginestra di Leopardi non ci può essere un futuro poiché il «prescindere da», diventa un «prescindere per» – ciascuno conta non per quello che è, ma per quello che fa – per dirla con il filosofo, è ridotto a mera funzione.

Nel contesto contemporaneo, ove il paradigma della complessità, della globalizzazione e del fare dominano lo scacchiere delle nostre vite, come comportarsi dinnanzi al destino? Precisando in quali termini si possa parlare di etica del finito – che non intende tanto suggerire una limitazione dell’umano, bensì una sua rivalutazione nel recupero delle virtù e nel liberare il più possibile quella potenza che ciascuno di noi è – Natoli, anche richiamando il significato della forma riflessiva del verbo tedesco sich schicken (adattarsi), ha ricordato come la libertà nasce dalla consapevolezza del vincolo e come «adattarsi, in questo caso, non vuol dire rassegnarsi, ma trovare la propria posizione giusta in un contesto in cui tu hai la potenza di introdurre variazione, perché se tu capisci che in quel contesto puoi fare qualcosa, puoi introdurre un cambiamento e sai che è in tuo potere, allora lo fai».
Come far fronte, dunque, al destino? Attivando le proprie potenzialità «perché le virtù non sono qualità: sono disposizioni che si irrobu-stiscono attraverso l’esercizio».

Prima di lasciare il lettore in «compagnia e in dialogo» con i testi e di dare l’appuntamento alla celebrazione del primo lustro di vita di Filosofi lungo l’Oglio vorremmo porgere alcuni ringraziamenti. In primis al direttore della Bcc di Pompiano e Franciacorta, Luigi Mensi, e all’amico Giuseppe Busetti per aver creduto, sin da subito, nella buona riuscita di questa manifestazione. Una fiducia che si è tradotta nel fare sì che questo prestigioso istituto di credito diventasse, in toto, lo sponsor di questo Simposio di pensiero e di parole.

Un grazie anche al generoso contributo del Gruppo AB Impianti, ai Comuni che ci hanno ospitato e a quelli che entreranno a far parte di questo «circuito» filosofico lungo l’Oglio che ha in serbo nuove tappe e nuove terre da toccare. Infine, un grazie ai relatori che sono approdati al nostro Festival per la prima volta o che sono ritornati, lasciandoci con uno speranzoso «arrivederci»; al nostro caloro-sissimo pubblico sempre attento e presente nonostante le distanze da percorrere e le condizioni atmosferiche non sempre benevole e agli editori della Compagnia della Stampa, Eugenio e Nicoletta Massetti che hanno accolto di buon grado il nostro desiderio di aiutare, se così si può dire, la ruminatio degli spettatori, offrendo loro la possibilità di poter fruire di una collana che, appunto, è denominata «Filosofi lungo l’Oglio». Una kermesse che rintraccia una delle sue idee costitutive nel paradigma di un nuovo pensiero – quello dialogico – che a partire dal timbro fondativo di Franz Rosenzweig, Martin Buber, Ferdinand Ebner trova in Bernhard Casper il pensatore contempora-neo che più ha saputo rielaborare l’accadere della rivelazione nell’evento del linguaggio (si pensi soltanto agli studi condotti dal celebre filosofo della Religione di Friburgo su Heidegger e Lévinas) che, in ultima analisi, significa rosenzwegiana-mente prendere sul serio il tempo o, il che è lo stesso, aver bisogno dell’Altro.

L’esserci mortale, storico e corporeo non può prescindere, se davvero vuole realizzare pienamente la sua umanità, dal dialogo che accade tra lui e l’altro. «Nel discorso tra Io e Tu, il linguaggio nasce in quanto dono dell’essere che si svolge sempre di nuovo. Il linguaggio in cui l’essere è presente in quanto rischiarato (gelichtet), non è lo spazio di luce (Helle) che l’Io, di propria iniziativa, apre solamente per sé, ma è la rischiaratezza (Gelichtetheit) che ha luogo, a partire da se stesso, tra me e l’Altro. Tra me e te, ciò che è si dà a partire da se stesso.

Ma in questo manifestarsi (Offenbarwerden) che si dà, vengo rivelato anche io stesso, così come viene rivelato l’Altro stesso, il partner del dialogo. Il manifestarsi dell’essere ha bisogno di entrambi noi in quanto noi. Il parlare, in quanto manifestarsi dell’essere tra me e te, mi assorbe completamente, così come assorbe completamente il partner. […] Il miracolo del dialogo consiste proprio nel fatto che coloro che parlano, se dovessero fare affidamento solo su se stessi, non potrebbero che smettere subito. L’evento del dialogo, così, è pura rivelazione».

Forse è racchiusa proprio in questo evento la chance e insieme la sfida che si pone in ogni momento all’uomo contemporaneo: sentire l’altro. Un fatto che non si riduce alla mera constatazione empatica di altre unità psicofisiche con le quali entriamo in contatto, ma all’impossibilità di sottrarsi − pena l’autoisolamento monadico − ad una comunità della quale, nolenti o volenti, facciamo parte. Se così si può dire, si tratterebbe di una destinazione (Bestimmung) dinnanzi alla quale non possiamo «declinare l’invito» e per far fronte alla quale non basta l’azione. Serve la responsabilità.

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