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Domenica, 04 Febbraio 2024 00:08

LA PAURA È GIANO BIFRONTE E HA ANCHE MOLTI OCCHI

Psicologia sociale. Roberto Escobar scandaglia tra le pieghe della nostra umanità, partendo dai classici per arrivare a Don Chisciotte, Roosevelt fino ai fratelli Grimm e alla novella di Straparola, «Flamminio»

Paura dell'altro, paura dello straniero, paura del futuro. Sono tante le paure che abitano le nostre vite. In particolare e, a maggior ragione, in una società ad alta complessità quale è la nostra. Roberto Escobar (nostro collaboratore) conia sua ultima fatica, I volti della paura, riesce in un'impresa assai ardua: scandagliare tra le pieghe della nostra umanità per scoprire le nuances che attraversano la passione più forte che connota quegli animali culturali che noi siamo, senza denti duri e forti artigli, che nella precarietà dell'artificio trovano il loro modo di costruire un mondo a portata di click.

In un corpo a corpo coni classici del pensiero dagli antichi a Montaigne, da Nietzsche a Canetti, per citarne solo alcuni l'autore chiarisce sin da subito che la paura ha due volti come Giano, il dio bifronte dei romani, l'antico signore della ianua, della porta che separa e unisce il fuori e il dentro: per un verso quello della fuga dinnanzi ad unpericolo; per l'altro quello della curiosità, del gusto del superamento dei limiti come può accadere al funambolo sulla corda o al militare al fronte.

Distinti e diversi da essa sono il panico e il terrore: il primo ci toglie la ragione, il secondo ci sottrae il controllo di noi stessi. Non si è uomini se non si è capaci di piangere e di ridere. Di frequentare il tragico dello stare al mondo. Se non ci si volge più verso il futuro, si rimane irretiti in un presente la cui immagine si fa debole e sfugge. Allora cadiamo in balia di una paura cieca che non segnala pericoli, ma produce fantasmi facendosi moneta e merce nel mercato dell'odio e dell'intolleranza. A Don Chisciotte che gli domanda come nel buio della notte la sua paura riesca a vedere tra le stelle i segni dell'alba, Sancho Panza risponde che la paura ha molti occhi.

Nel suo celebre discorso inaugurale della prima presidenza, il 4 marzo 1933, Roosevelt giunse ad affermare che «la sola cosa di cui dobbiamo avere paura, è la paura stessa». In che senso? Escobar evoca piùvolte il Giovannino senza paura della tradizione popolare, così chiamato «perché non aveva paura di niente», come si legge nella prima delle Fiabe italiane di Italo Calvino. Il suo modo assurdo di parlare e agire, che per alcunia partire dall'etimo di absurditas: per via di sordità consisterebbe nella qualità di non dare ascolto alle ovvietà, è ciò che gli consente di mettersi in cammino verso l'al di là del noto. La peculiarità di questo piccolo, ingenuo eroe sta nella mancanza di avere paura.

Nel caso del ragazzotto dei fratelli Grimm, l'anomalia si manifesta nel corpo come incapacità di avere la pelle d'oca. Non a caso, pavor, nel suo etimo esprime la materialità e la carnalità del tremare. A differenza del fratello, quando si fa buio, questi non teme né notte né cimiteri. Lui, proprio come uno stupido, si mette in cammino per andarsela a cercare quella cosa strana da cui gli altri fuggono.

A fare da contraltare a questo eroe disinvolto, v'è il pastore di Marcellinara, di cui narra Ernesto De Martino ne La fine del mondo, che vedendo dileguarsi il centro del suo cosmo per lui costituito dal campanile, viene assalito dal terrore dello spaesamento. Uno sporgersi sul nulla che «l'essere limite che non ha limiti», per dirla con Simmel, quell'animal incompleto segnato costitutivamente della mancanza e al quale solo appartiene il bisogno, direbbe Nietzsche «di unire e di dividere», può superare se coglie nel confine che nel suo significato più ampio è una soglia la linea della metamorfosi della paura sapendo che tra il dentro e il fuori v'è «uno scambio continuo».

In questo avanzare cadendo di cuirestatracdanell'italiano procedere, il confine non è muro, ma mutamento e passaggio, lo straniero non è «un orco», ma, come scrive Kristeva, «la faccia nascosta della nostra identità». Trasgredendo e negando quella che, di volta involta, sembra una cesura invalicabile fra quanto ha senso e quanto nonne ha: il potere cruento del capo, le sfide della tecnica che vanno affrontate con la preveggenza di Prometeo, il potere neoaristocratico della tecnocrazia economico-finanziaria viene conquistata la prima delle nostre libertà, la libertà dalla paura.

E che dire della paura della morte? Quella alla ricerca della quale va il protagonista della novella rinascimentale di Straparola, Flamminio? Questi incontra nel suo camminare senza posa un ciabattino, un contadino, un sarto, un eremita che nulla sanno dirgli della signora che tutti attende, se non suggerirgli di continuare a camminare. Alla fine si imbatterà in una «vecchia disdentata» credendo di averla trovata. In realtà, la donna gli svela che è la vita e impugnando una spada taglia la testa al ragazzotto dopo avergli promesso che gliela attaccherà con uno dei suoi unguenti. Ma per aiutarlo a capire finge di sbagliare e gliela incolla al contrario. Flamminio è terrorizzato: che sia questa la morte, il mondo e lui stesso visti con gli occhi rivolti al contrario? Conviene farsi di nuovo tagliare la testa e farsela incollare nel verso giusto. Questo chiede Flamminio alla vecchia che lo lascia per un po' «rammaricarsi» e poi lo accontenta.

In fondo, la paura della morte non ha rimedi dal momento che il suo oggetto non è un pericolo da evitare, né un rischio da affrontare, ma un fatto certo. Essere padroni della propria morte, conclude Escobar, al netto del caso e del capriccio, significa essere padroni se non di tutto il tempo del nostro esistere, almeno del cammino verso il futuro, perciò essere liberi.

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